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Fogli e Parole d'Arte

Rivista d'arte on line, ha ricevuto il codice ISSN (International Standard Serial Number)

1973-2635
il 23 ottobre 2007.

Fogli e Parole d'Arte è diretta da
Andrea Bonavoglia (Vitorchiano)
e distribuita on line dalla società Ergonet di Montefiascone (Vt).

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Il Trittico del Redentore, di Antonio da Alatri

 


Figura 1

Con l’ingresso trionfale in Roma di Martino V, nell’autunno del 1420, si conclude il lungo esilio avignonese del Papato e si inaugura, per la città eterna, un periodo di profondo rinnovamento che la trasformerà, in pochi anni, in un centro artistico di primaria importanza.
All’intensa politica di restaurazione della sovranità pontificia si accompagna, difatti, la ferma determinazione di riportare all’originario splendore i più antichi monumenti della cristianità.
Tra gli interventi più significativi spicca la grande impresa pittorica all’interno della Basilica di San Giovanni in Laterano che, a partire dal 1427, sotto il segno della più autentica cultura figurativa tardogotica, vede impegnati dapprima Gentile da Fabriano e successivamente Antonio Pisanello.

Nell’ambito di questo importante cantiere avrà modo di formarsi una nutrita schiera di allievi e collaboratori che, nei decenni successivi, continueranno ad operare autonomamente nella stessa Roma e in molte altre terre limitrofe, esportando con accezioni diverse l’idioma cortese dei due grandi maestri.
Ed è proprio in questo contesto che va probabilmente riferito l’apprendistato di Antonio da Alatri, un artista dalla biografia tutt’altro che precisata, la cui presenza a Roma è tuttavia documentata solamente alla metà del XV secolo, come testimonia un rogito notarile vergato nella Sagrestia della Basilica Lateranense il 19 Aprile 1455, in cui compare oramai con l’appellativo di “Magistro Antonio de Alatro pictore”.
Un’educazione prevalentemente romana sembra del resto alla base della sua eclettica e raffinata cultura gotico-cortese - intrisa di accenti umbro-marchigiani e di una sottile consapevolezza della tradizione pittorica toscana - acquisita quasi certamente intorno al terzo decennio del Quattrocento.
Tutta la sua ricerca, declinata secondo un’interpretazione personale del linguaggio “aulico e prezioso” introdotto a Roma da Gentile da Fabriano, tende infatti a conciliare quell’impostazione aristocratica di matrice tardogotica con tratti di più sicura naturalezza, costantemente espresse nella rilucente armonia dei colori e nella grazia serena della composizione.


Figura 2

Accomunata da una sottesa e delicata emotività che rende peculiare il suo ricco linguaggio pittorico, la produzione di Antonio da Alatri - sopravvissuta per lo più attraverso brani di pittura murale - raggiunge tuttavia l’espressione più compiuta in un rarissimo dipinto su tavola, da considerarsi l’opera più celebre e indubbiamente più rappresentativa tra quelle conosciute e attribuite al pittore alatrino [Fig. 1].
Il dipinto, noto come il Trittico del Redentore e firmato con la locuzione tradizionalmente più esemplare: “Antonius de Alatro me fecit” [Fig. 2] per sancirne la piena e inconfutabile autografia, risulta scandito dalla classica tripartizione di origine medioevale, secondo un minuzioso impianto dimensionale che stabilisce ed esalta l’assetto gerarchico delle figure.
Nella tavola centrale, contornata da una cornice aggettante e da un coronamento cuspidato, è posta la figura del Salvator Mundi, mentre le due valve laterali di chiusura, di struttura più semplice e con terminazione a spiovente unico, accolgono a sinistra l’immagine della Madonna col Bambino e a destra l’effigie di San Sebastiano.
L’intera composizione, abilmente calibrata dalla compostezza dei personaggi e dalla smagliante tavolozza cromatica esibita dal pittore, è unificata dal coerente impiego del fondo dorato e dal prato erboso sottostante che mostra, con compiacimento tardogotico, una straordinaria varietà di specie floreali.


Figura 3

Sulla tavola mediana la figura di Cristo Redentore, [Fig. 3] seduta in trono al centro della scena con ricercata simmetria, si presenta come un’autorevole parafrasi iconografica della Majestas Domini.
Sebbene lontanissima dalla tipica staticità imposta da una lunga tradizione di origine altomedioevale, ne ricorda tuttavia il tono aulico e solenne, che si avverte in quella tendenza a costituirsi in un corpo unico, insistente su un proprio centro di gravità, eppure partecipe delle delicate oscillazioni che caratterizzano, in misura maggiore, le figure degli sportelli laterali.
La volontà salvifica del Redentore, che sembra accarezzare e allo stesso tempo proteggere l’immagine della Terra posta sulle ginocchia, è sapientemente espressa dalla serena umanità del volto e dal gesto consolatorio della mano destra benedicente.
Qui la pittura è usata come un valido strumento linguistico, dove forma e colore sembrano risolversi in una sintesi dominata dalla luce, nel suo pieno significato di alta spiritualità, fantastica e visionaria.

Sottilmente elaborata nel soggetto e nelle forme, l’immagine del comparto centrale lo è altrettanto sotto il profilo del contenuto simbolico.
Forma e contenuto si fondono in un “unicum compositivo” con il quale il pittore, attraverso eccezionali virtuosismi tecnici, esibisce e al tempo stesso confonde “significanti” di non semplice decifrazione.
Ne è l’esempio più evidente l’intricato ordito decorativo della tunica del Redentore che, ad uno sguardo sommario, si presenta come un fluente ornamento di foggia assai raffinata, ma che ad una lettura più attenta rivela, per mezzo di un elegante artificio grafico, il nome di Gesù Cristo preceduto da una croce gigliata: + yhesus XPS = Iesus Chr(istu)s. [Fig. 4]


Figura 4

Si tratta di una sigla antichissima, diffusa nell’epigrafia sia greca che latina, consolidatasi fin dai primi secoli del Cristianesimo, secondo una prassi che imponeva l’abbreviazione di tutti i nomina sacra.

Un’ulteriore testimonianza, introdotta all’interno del Trittico, è data da una rarissima “Imago Mundi Rotonda”. [Fig. 5]Si tratta di una citazione iconografica di assoluta importanza documentaria giacché riproduce una tipica mappa terrestre elaborata secondo una concezione del mondo precristiana, ma accolta con favore dalla Chiesa anche in tempi successivi.


Figura 5

La simbolica cartografia, detta anche Noachide per la sua suddivisione biblica in tre parti - una per ciascuno dei tre figli di Noè - mostra la porzione conosciuta dell’emisfero settentrionale, scandita al centro dal Mare Mediterraneo a forma di grande T capovolta che separa i tre continenti allora ritenuti abitati: l’Europa (la terra di Jafeth), l’Asia (la terra di Shem) e l’Africa (la terra di Cham), cosparsi di torri e fortificazioni a indicare le città più importanti, tra cui al centro Gerusalemme. A completare il disegno, ispirato al classico schema del VII secolo tramandato nelle “Etimologie” da Isidoro di Siviglia al “De Terra et partibus”, si dipana il grande cerchio dell’oceano, emblematica delimitazione esterna dell’intera rappresentazione.
La tavola centrale è una prova rilevante della capacità di organizzazione compositiva posseduta da Antonio da Alatri, qui sapientemente modulata dalla linea costruttiva, dalle preziosità cromatiche e formali del panneggio, nonché dall’agile chiaroscuro in grado di risolvere visivamente ogni particolare.

Ovunque aleggia un senso di estrema leggerezza, che trova nel sofisticato scorcio illusivo del trono timpanato il suo punto di forza: stravaganti pinnacoli, fioroni multicolori, ricci e modanature, finanche i motivi floreali lavorati a broccato che ornano lo schienale, [Fig. 6]gareggiano per levità e raffinatezza con la scrupolosa decorazione punzonata del nimbo di Cristo e dell’oro di fondo, simbolo quest’ultimo della manifestazione della luce divina e frutto di un’attitudine finemente artigianale, ben viva nella bottega dell’artista.

Figura 6


Figura 7

Del trono, vero e proprio manufatto di oreficeria gotica su scala monumentale, colpisce infine la complessità dei dettagli iconografici, che raggiungono l’apice nella Melagrana della cuspide: [Fig. 7]metafora della perfezione divina e della fecondità spirituale della Chiesa nei suoi innumerevoli effetti.

Lo sportello di sinistra si impone all’attenzione per una maggiore dolcezza di forme e di espressioni, trasformando la consueta iconografia della Madonna col Bambino in un’immagine domestica di materna e filiale intimità. Amorevole è infatti l’abbraccio della Madre nell’atto di sostenere il Figliolo,[Fig. 8] e altrettanto tenera la risposta del Bambino che le si aggrappa al collo e all’orlo ricamato della veste, nella richiesta di una più confidenziale vicinanza.
Il protendersi in avanti della Vergine, al punto da oltrepassare con il manto il limite fisico della cornice di destra, lascerebbe intendere che l’autore si sia ispirato alle celebri parole del Salve Regina: “Et Jesum, benedictum fructum ventris tui, nobis, post hoc exilium, ostende”.
È, dunque, un episodio di alto impatto devozionale e soprattutto di elevato valore compositivo, nel quale le inflessioni dichiaratamente gotiche riemergono con evidenza nell’aggraziata postura della Vergine e nel ritmato svolgersi dei panneggi blu e cremisi, realizzati con assetto flessuoso e con variegata e incomparabile qualità cromatica.


Figura 8


Figura 9

Ad un ideale completamento della raffigurazione mariana, incentrata principalmente sulla prerogativa di Maria “Deipara”, concorrono nel dipinto almeno altri due concetti essenziali che l’autore non esita ad introdurre nella ricercata composizione.
L’irrompere dell’angelo, [Fig. 9] con movenze funamboliche, per deporre una corona d’oro sul capo della Vergine, trasferisce l’intera iconografia su un piano squisitamente metafisico, al solo scopo di affermare, attraverso l’ennesimo ricorso alla potenza del simbolo, la regalità della Madre di Dio, in quanto modello di perfezione e di unione tra natura divina e umana.
Non meno simbolico si rivela, a ben guardare, quell’intensificarsi ai piedi della Madonna di una variegata e multiforme vegetazione, [Fig. 10] punteggiata di piante esilissime e di minuscoli fiori dall’aspetto variopinto.


Figura 10

È una chiara allusione all’hortus conclusus tardo medioevale, una sorta di ideale rappresentazione del paradiso terrestre, molto popolare nei paesi d’oltralpe, che risente del naturalismo lombardo e che rappresenta, nell’espressione di un mondo di delicata e immateriale perfezione, la verginità della Madonna.

Sullo sportello di destra, in uno spazio ancora più saturo e traboccante di colori puri, ovunque accostati per giustapposto contrasto, si staglia la figura di San Sebastiano [Fig. 11] che, pur essendo l’unico a vestire gli abiti dell’epoca, viene riproposto, con cosciente scelta arcaicizzante, nell’inconsueta e oramai superata iconografia di giovane soldato.
Si tratta di una modalità espressiva peculiare e continuamente presente nell’atteggiamento, cerebrale e al tempo stesso fantasioso, di Antonio di Alatri: un suo segno distintivo e ambivalente, sempre teso a coniugare componenti tradizionali con elementi di una cultura più aggiornata.


Figura 11

In realtà, l’antico soldato romano, tribuno delle guardie pretorie che, secondo un’anonima Passio del V secolo, subì il martirio in seguito alla sua conversione al Cristianesimo, si è per incanto trasformato in un moderno cavalier cortese senza macchia e senza paura, pronto a difendere l’incolumità della propria fede e l’integrità dell’ortodossia della Chiesa.
Ammantato di rosso, ed elegantissimo nella lunga veste ritmicamente scanalata al pari di un auriga greco, il Santo mostra con orgoglio il dardo acuminato del martirio, quale prova inoppugnabile delle sue virtù eroiche.
È evidente che l’immagine costituisce la sintesi più alta tra il sentimento religioso e l’ideale cortese propugnati dal pittore; ed anche il continuo ricorso a quell’irrazionalità spaziale, apparentemente lontana dalle coeve speculazioni prospettiche nate in terra fiorentina, altro non è che metafora dell’ambiguità dell’apparenza.

Di una così accorta elaborazione mentale Antonio da Alatri offre il suo ennesimo saggio nei tratti esuberanti e fantasiosi del vessillo flamboyant impugnato dal “Miles christianus”.
Espressione di una non comune artificiosità formale e coloristica, irreale nella sua bellezza calligrafica e immaginaria, quella bandiera bifida [Fig. 12] colorata di puro carminio sembra improvvisamente trascolorare per divenire il simbolo eloquente della vittoria della Vita sulla morte come pure l’emblema della torre che campeggia su di essa, che pare scivolare dentro le sue pieghe guizzanti per trasformarsi in una limpida allegoria della Gerusalemme celeste, traguardo finale di ogni credente.
Fortemente convinto dell’efficacia comunicativa della pittura, Antonio da Alatri sembra aver costruito la sua opera come un insieme inestricabile di elementi intelligibili.


Figura 12

Si tratta, per citarne alcune, di componenti morfologiche, chiaroscurali e cromatiche, che visivamente si conformano ad un impianto compositivo coerente, ma che sul piano dei significati tratteggiano delle complicate allusioni dotate di una propria essenza simbolica.
Nasce così la straordinaria ricchezza del linguaggio di Antonio da Alatri: un linguaggio in cui traspare una fortissima ambivalenza tra realtà e fantasia, conferendo straordinario potere di suggestione alla preziosa materia pittorica che, ad ogni sguardo, si trasfigura nel bagliore iridescente sprigionato dal dipinto.

È il linguaggio più consono a quest'ultimo scampolo autunnale di Medioevo che, con la sua adesione incondizionata alla multiforme bellezza della natura e all’impalpabile forza del sentimento del sacro, costituisce un ulteriore e importante segno di “redenzione” dell’animo umano.

 

Scheda dell’opera

Titolo:Trittico del Redentore

Soggetto: Cristo benedicente, la Vergine col Bambino e San Sebastiano

Autore:Antonio da Alatri

Iscrizioni:firmata al centro, in basso: Antonius de Alatro me f[ecit]

Datazione:metà del XV sec.

Tecnica:tempera su tavola con ampi settori dorati a foglia d’oro zecchino e punzonati

Dimensioni:cm 86x98 (comparto centrale: cm 42x98 - comparti laterali: cm 21x96)

Proprietà:Galleria Nazionale d’Arte Antica - Roma (N° Inv. 1455 - Vecchio Inv. 4129)

Provenienza:acquistata a Roma dalla collezione privata Augusto Alberici nel 1901

Attuale collocazione:Museo capitolare della Chiesa di S. Maria Maggiore in Alatri (in custodia dal 1917)

Ultimo restauro:aprile 2008 – a cura della Soprintendenza BSAE del Lazio - perizia N° 49 del 20/5/2007 e N° 142 del 17/3/2008.

 

Bibliografia essenziale

BERTINI CALOSSO A., Le origini della pittura del Quattrocento attorno a Roma, in Bollettino d'arte del Ministero della Pubblica Istruzione, XIV, Roma 1920.

VAN MARLE R., , The Development of the Italian Schools of Painting, VIII, The Hague 1927.

CORBO A. M., , Fonti per la storia romana al tempo di Nicolò V e Callisto III, Istituto Nazionale di Studi Romani, Roma 1990.

RITAROSSI M., Aletrium, Tofani Editore, Alatri 1999.

LAGEMANN K., Spätgotische Malerei in Latium: stilkritische Analyse und Katalog, LIT, Münster 2000.

THIEME – FELIX BECKER U.,Allgemeines Lexikon der Bildenden Künstler von der Antike bis zur Gegenwart, I.

 

 

 

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