«Icone» della contemporaneità

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Un’immersione nella trascendenza a Punta della Dogana

 

Filmato youtube presente sul sito di Palazzo Grassi - Punta della Dogana
 

Le icone della contemporaneità sono immagini che ne nascondono altre: dipinti che non si possono ammirare, pagine che non si possono leggere, specchi nei quali non ci si può guardare. Maschere sul volto di una verità che, tuttavia, attraverso i loro squarci, si illumina, ci osserva, ci richiama. In esse il sacro – la religione, ma anche il passato, la tradizione – è celato ed evocato, ma anche custodito e tramandato. 

È un quadro di Lucio Fontana, Concetto spaziale, ad aprire «Icone», l’esposizione di un’ottantina di opere di artisti contemporanei, appartenenti in buona parte alla collezione Pinault, visibili fino al 26 novembre negli spazi di Punta della Dogana. Il gesto di Fontana, la perforazione della tela con un punteruolo, schiude alla rivelazione di una dimensione ulteriore – la fonte luminosa retrostante – aprendovi dei punti di luce, quasi stelle su un cielo notturno. Una connessione cosmica creata anche dalle fasce di fili dorati, sottili, eterei, tesi tra la base del pavimento e l’altezza del soffitto, in Ttéia di Lygia Pape.

In Untitled di Danh Vo il sacro è precluso alla vista da un drappo funesto: una bandiera di guerra americana straziata da colpi di arma da fuoco, da un cui strappo si intravvede appena un dettaglio di una quattrocentesca Madonna con bambino. L’icona del potere – del capitalismo, dell’imperialismo – è un’icona di morte, il sudario che copre le bare dei caduti americani; ma anche un sipario sulla tragedia della guerra, che trasfigura la vita in morte sacrificale.

E proprio la croce, l’antonomasia del sacro in Occidente, è restituita alla contemporaneità da Donald Judd nell’astrazione di forme geometriche che la elevano a condizione universale. La continuità tra i martiri del passato e quelli del presente è peraltro ribadita in molte opere della collezione. In Black Mohair Spirit di David Hammons il volto dai tratti africani, reclinato, sofferente, dell’artista ricorda quello di Cristo sulla croce. Ne La nona ora di Maurizio Cattelan, il manichino di cera di Giovanni Paolo II, abbattuto e schiacciato da un meteorite, sembra ricevere su di sé i mali del mondo. Il chiodo di James Lee Byars, posto in una teca, dettaglio isolato, decontestualizzato, sgrezzato dalla doratura, non per questo si percepisce più distante, meno conficcato nella carne. Nel video di Edith Dekyndt la ciocca di capelli neri che ondeggia al vento – bandiera raccapricciante, anch’essa issata sul sangue – vuole ricordare gli schiavi africani morti nel naufragio di una nave clandestina sulle coste della Martinica nel 1830; diventata nel 2022 il simbolo della lotta delle donne iraniane, odierne vittime di un’altra schiavitù, quella al regime del proprio paese, non può non ricondurre il pensiero ai naufraghi delle tratte di oggi, i migranti.

Lo stesso artista, come fa Paulo Nazareth, si fa martire, esponendo il proprio corpo alla morte: a quella reale e ritualizzata, attraverso la performance della sepoltura sotto un mucchio disordinato di teschi; ma anche a quella morale, ancora più anonima, più oscena, che è l’esibizione di sé “for sale”, la mercificazione della propria immagine che è una delle cifre del mondo contemporaneo.

(per le immagini ufficiali, vedi il sito di Palazzo Grassi - Punta della Dogana

 

Ma la morte ha anche la delicatezza diafana dei teschi vitrei e lucenti di Sherrie Levine, disposti in una serie che rinvia all’eternità ed accostati ad un’altra serie, Today di On Kawara, una sequenza di sette quadri datati dall’1 al 7 dicembre 1974 – una tranche de vie, fogli staccati giorno dopo giorno da un calendario da tavolo – che riporta ad una dimensione, quella della quotidianità scandita dal tempo, della finitezza, solo in apparenza opposta. Times measures è anche il titolo dell’opera di Dayanita Singh, una successione di fotografie di fagotti annodati a conservare le pagine, le storie, per sempre perdute, ma anche racchiuse, nei faldoni di un archivio.

La luminosità dell’oro, emblema di sacralità, ritorna in molte icone, antiche e moderne, come la diversa riproposizione della bandiera americana di Vo, dove le stelle e le strisce, da esso impreziosite, contrastano con lo sfondo povero – un imballaggio di cartone riciclato – forse a rappresentare, anche, un divario sociale. O i grandi pannelli di Rudolf Stingel, la cui superficie dorata è contaminata da elementi contingenti, tracce casuali, come le impronte di una scarpa. O le tavole lignee con le icone della Madonna, in cui la foglia d’oro, che nella tradizione figurativa vi fa da sfondo, viene applicata dall’artista, Étienne Chambaud, anche sulle immagini, che diventano così Uncreatures prive di volto, con gli occhi scoperti a fissare lo spettatore. Ed è rivestita d’oro la torre di Byars, contraltare della hybris della Babele contemporanea, invito ad un’altra via di elevazione dell’umano.

A volte il sacro fa la sua comparsa in forme smaterializzate, come le vestigia degli oggetti liturgici (crocifissi, ostensori, calici) rimaste impresse sulle pezze di velluto sbiadite recuperate da Vo dai musei del Vaticano, appese al soffitto come vessilli; o il cerchio dai contorni nebulosi che si rivela, come un’apparizione mistica, sulla tela di Francesco Lo Savio.

«Icone» è un’immersione nella trascendenza, che, come le sonorità che accompagnano alcune installazioni, riesce a toccare le corde dell’interiorità. Attraverso il dialogo tra immagini di oggi e di ieri, questo spaccato di arte contemporanea ripropone questioni universali. Anche quando l’opera respinge lo sguardo dello spettatore – come lo specchio di Hammons, completamente coperto da un tessuto lacero che gli impedisce di guardarvisi, quasi a negarne l’immagine, l’identità – essa lo rimanda al suo interno, in un invito all’indagine del sacro che è in lui: alla conoscenza di sé.

Un percorso che raggiunge il suo culmine nella torretta dell’edificio, in cui è installata To Breathe-Venice di Kimsooja. In una continuità con l’acqua della laguna sulla quale si affaccia, il pavimento della sala diventa uno specchio, una superficie riflettente. E, se l’identità del soggetto che vi entra non vi è negata, essa è tuttavia duplicata; indefinitamente, infinitamente, moltiplicata. La sensazione è la vertigine, la perdita di equilibrio, di certezza, lo smarrimento in un abisso nel quale, per trovarsi, è necessario naufragare.

 

Scheda tecnica

ICÔNES, dal 02.04.23 al 26.11.23, Punta della Dogana, Dorsoduro 2, Venezia. Palazzo Grassi e Punta della Dogana sono aperti tutti i giorni dalle ore 10 alle ore 19. Chiusi il martedì e il 25 dicembre.
Biglietto unico per accedere alle mostre in corso a Palazzo Grassi e Punta della Dogana: Intero: 15€, Ridotto: 12€