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Mi ritraggo dunque sono

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L'autoritratto, Munch e altri

L’autoritratto: tipologie.

Gli artisti si sono ritratti spesso e volentieri, almeno da una certa epoca, tanto che dal Rinascimento a oggi, non sarebbe del tutto semplice individuare chi non l’ha fatto. Alcuni addirittura hanno scelto come soggetto privilegiato se stessi (ciò è avvenuto in particolare nella letteratura; qui ci riferiamo solo alle arti visive e in specie alla pittura). Altri hanno seguito negli anni l’evoluzione del proprio aspetto costruendo una storia personale: “La mia pittura è il mio diario”, E. Munch.

Il proprio viso è anche per primo più facilmente disponibile per lo studio del volto. Ma la ragione profonda non è mai così banalmente utilitaristica: “Non mi dilungherei tanto su me stesso se vi fosse qualcun altro che conoscessi altrettanto bene”, H. Thoreau.

È possibile, e forse utile, suddividere gli autoritratti in tre tipi: il primo, quando è il soggetto principale, assoluto, predominante o pressoché unico; il secondo, nel quale il pittore si ritrae in un personaggio, protagonista o astante di una vicenda; il terzo, quando l’autore inserisce in modo marginale il proprio volto nell’opera. È ovvio che l’importanza nell’ambito del genere va dunque al ritratto che appartiene al primo tipo in quanto soggetto esclusivo.

Fig. 1

Fig. 1, Michelangelo


Sebbene sia difficile fissare linee di demarcazione nette, per il terzo tipo si può pensare a opere nelle quali l’autore inserisce la propria persona come se apponesse una firma, orgoglioso del proprio lavoro. Si tratta di opere commissionate e il ritratto ha il valore di una testimonianza e di una firma eseguita con i mezzi dell’arte visiva al posto della scrittura. Nel medesimo tempo ovviamente l’artista è cosciente di eternare se stesso entrando a far parte dell’opera. In tal senso si potrebbe pensare a L. Ghiberti nella
Porta del Paradiso del Battistero di Firenze, a Benozzo Gozzoli nella Cavalcata dei Magi di Palazzo Medici-Riccardi sempre a Firenze, e a Masaccio, Signorelli e altri. Ma siamo già al confine col secondo tipo e forse si è già varcato.

Decisamente della seconda specie ci sono esempi straordinari: Michelangelo, Tiziano, Caravaggio (ma sarebbero molti).

Michelangelo è ormai vecchio, il pensiero della morte s’aggiunge al suo solito sconforto, decide di scolpire per sé, per la propria sepoltura, una Pietà in cui si raffigura nel Nicodemo (Fig. 1); il lavoro va avanti negli anni, il marmo è duro e difettoso e ciò sembra un cattivo presagio. L’artista abbandona l’opera dopo averla colpita, quasi a volerla distruggere. È la Pietà che oggi si trova nel Museo dell’Opera del Duomo a Firenze: è stata completata da altri e alla fine di queste peripezie è un’opera di particolare bellezza e significato.

Tiziano, anch’egli vecchio, anch’egli sceglie lo stesso tema, dipinge una Pietà che sarà finita da altri e destinata al luogo di sepoltura dell’artista (Fig. 2). Nel dipinto si ripete con un quadro nel quadro il tema della Pietà e della preghiera: in una tavoletta, in basso a destra Tiziano e il figlio inginocchiati pregano la Madonna, si pensa, dell’intercessione di fronte all’epidemia in corso. L’ultima opera di Tiziano è uno dei capolavori dell’artista ormai approdato alla libertà del dipingere con il colore franto e screziato di luce, in anticipo di secoli.

Fig. 2

Fig. 2, Tiziano

Fig. 3

 Fig. 3, Caravaggio

 

Fig. 4

Fig. 4, Michelangelo

Caravaggio dà il proprio volto alla testa di Golia decapitato ed esposta dal braccio sollevato di David (Fig. 3). È la richiesta di grazia di un condannato alla pena capitale, un peccatore che si umilia pentito con i tratti del volto deformati nell’ultimo urlo e dallo strazio dell’uccisione immaginata e temuta. La morte lo coglierà solo l’anno successivo forse favorita dagli stenti di una vita in fuga. L’espressione dolente del giovane David è il segno di una tragicità dell’esistenza che va oltre la volontà individuale.

Sono opere tragiche che richiamano storie e vicende personali drammatiche.

Caravaggio aveva già raffigurato la sua presenza nel Martirio di San Matteo. Michelangelo aveva posto la propria effigie, come la vittima delle critiche malevoli, nella pelle del san Bartolomeo nel Giudizio Universale (Fig. 4).

Il primo tipo trova uno sviluppo particolare dall’Ottocento in poi. Per la verità anche prima il genere aveva avuto larga diffusione, si pensi alla collezione medicea collocata nel Corridoio vasariano, ma i moventi erano in parte diversi. L’artista (prima della fotografia) con l’autoritratto consolidava una fama acquisita, offriva un saggio di bravura e l’opera rappresentava una doppia firma e una doppia presenza. Il pittore nell’età contemporanea, svincolato in gran parte dalla committenza, sceglie i soggetti da proporre agli acquirenti e dedica un’attenzione diversa alla propria immagine. Ciò avviene anche per una crisi individuale e a causa di mutate condizioni storiche e sociali. L’artista se da un lato si esclude, dall’altro è escluso dalla società e diviene uno sradicato che non condivide più norme sociali e valori. M. De Micheli in un testo fondamentale, Le avanguardie artistiche del Novecento, sostiene che l’artista, dopo la Comune, non è più in sintonia con la società in cui vive. È una crisi storico-sociale bene esemplificata dal dramma di Van Gogh, che non è solo personale.

Si aggiunge ad accentuare la crisi dell’io lo spaesamento “filosofico” operato dai “maestri del sospetto”, Marx, Nietzsche e Freud, che minano le certezze del mondo borghese e rivelano dell’uomo dimensioni sconosciute. Allora l’autoritratto acquista un senso nuovo e una ricerca più profonda e inquietante: “Io è un altro” (Rimbaud).

Se si può accogliere per comodità tale suddivisione, l’analisi più interessante e significativa è quella naturalmente d’individuare le motivazioni delle opere, il significato, il valore artistico. Le risposte sono diversificate pur avendo qualcosa in comune, sono ipotetiche e congetturali, oltre a valere solo caso per caso.

La pista da seguire più feconda per intensità di significato è forse quella degli artisti che hanno costruito una storia personale attraverso una lunga serie di autoritratti (Rembrandt, Courbet, ecc.); e soprattutto quelli che sono tornati più volte a indagare il proprio viso alla ricerca di se stessi con disperazione e angoscia (Van Gogh, Munch, ecc.).



Studi, esempi…

L’autoritratto, oltre la rassomiglianza, evitato il banale compiacimento, dovrebbe essere un tragitto che va dall’antica massima “conosci te stesso!” a “sii te stesso” e infine “mostra te stesso agli altri”, così che agli altri quella conoscenza giovi per compiere una simile via.

Un testo ineludibile sull’autoritratto è Narciso infranto di A. Boatto. L’autore inizia lamentando a ragione che gli studi quasi sempre non distinguono ritratto da autoritratto. “Non già l’interrogativo 'chi sei tu?' che orienta l’universo della ritrattistica, ma 'chi sono io?' a questa rigorosa questione si propone di rispondere l’autoritratto” (A. Boatto). Poi prosegue esponendo le difficoltà di vedersi, l’ambiguità di un’operazione apparentemente scontata.

Nella pratica giornaliera, del vivere comune, mentre il volto degli altri è perfettamente osservabile e non sfugge al nostro sguardo, per paradosso è il nostro volto che non ci è visibile (insieme ad alcune parti del corpo). La possibilità di vedere il proprio volto è data solo da uno specchio, cioè uno strumento, qualunque sia la superficie riflettente. Non è mai una visione diretta, dunque reale, ed è comunque rovesciata nella simmetria.

A partire dalle caratteristiche della percezione del nostro corpo, Boatto ipotizza, in questa alterità rispetto a se stessi, la nascita di entità come il daimon, l’angelus, l’aureola.

L’operazione di ritrarsi è complessa, non per caso compare tardi, non prima del Quattrocento come soggetto autonomo (A. Boatto). J. Hall (L’autoritratto. Una storia culturale) “rende onore al Medioevo senza farne l’apologia” sostenendo invece che tale periodo storico sia ricco di autoritratti, “ispirati” all’ossessione per lo specchio più importante, a suo dire, dei perfezionamenti tecnici rinascimentali di questo mezzo e strumento. Il medesimo autore però è costretto ad ammettere che tale epoca non conosce autoritratti autonomi e inoltre gli esempi che porta si riferiscono soltanto al basso medioevo.

L’artista affida all’arte la propria immagine per sottrarla al nulla dove finiscono tutte le cose, per sottrarla alla presa distruttiva del tempo e della morte.

Ritrarsi presuppone, se non si usa solo la memoria, circondarsi da altre due immagini di sé, oltre all’io reale, quella dello specchio e quella della tela.

Secondo la tesi di Boatto, lo sguardo di Narciso su di sé nasce nel distacco dal mondo degli altri come ripensamento e separazione. Conseguente al crollo di un universo di valori, sempre più l’individuo è solo riflesso su se stesso, ma proprio allora finisce per essere difficile riconoscersi. La scoperta di una parte di sé misteriosa e sommersa completa la disgregazione e la perdita di un’idea rassicurante. Ma non si cerca se stessi sempre di più e con insistenza quando non si è sicuri di riconoscersi? Ciò spiegherebbe perché, in genere, gli artisti che vi si sono dedicati ossessivamente, siano i più tormentati e spesso travolti dalla sofferenza.

Parlare di sé è sempre inattendibile: l’uomo si giustifica, si difende e alla fine anche si calunnia. Si oscilla da una difficile obiettività all’incolparsi severamente.

Alcune opere dichiarano la complessità di autorappresentarsi con il duplice o triplice ritratto: il pittore “reale” (meglio se non di spalle), quello dello specchio, quello della tela. Per una restituzione “vera” ci sarebbe bisogno di un secondo specchio che rovescia ciò che il primo ha invertito nella simmetria del volto (così con quattro immagini dell’autore): un’operazione astrusa e comunque “ineseguibile”. I due volti dovrebbero inoltre presentare lievi divergenze, per luci, distanze e diverse angolazioni visive: ciò che il pittore vede non è uguale a ciò che vediamo noi.

Pirandello fonda Uno, nessuno e centomila a partire da una scoperta del protagonista inerente la propria faccia. Egli poi analizza compiutamente tutte le difficoltà del guardarsi e addirittura le elenca in sette punti.

Non si può qui fare una storia, neanche breve, dell’autoritratto. Se ne sono occupati con autorevolezza e competenza e in maniera convincente storici dell’arte tra i più acuti ed esperti, a cui si rimanda per la lettura di una serie di opere rilevanti.

Ecco un elenco esemplificativo:

gli autoritratti del Parmigianino, da quello giovanile nello specchio convesso (Fig. 5) all’altro come Imitatio Christi del disegno con le vergini della Steccata;
quelli degli artisti infelici o malinconici: Annibale Carracci, Adam Elsheimer, Carlo Dolci nel doppio autoritratto;
degli artisti di “successo” Rubens, Reynolds, De Chirico (Fig. 6);
gli autoritratti tragici, “presagio” di una morte imminente e violenta: P. Modersohn-Becker (1907), R. Gerstl (1908), F. Nussbaum (1943);
gli autoritratti col memento mori: A. Bocklin (con la morte che suona il violino, Fig. 7), L. Russolo (con teschi), Munch (con braccio di scheletro, danza macabra), J. Ensor (autoritratto scheletrico). Lo stesso Ensor “finge” di denigrarsi negli autoritratti col cappello fiorito, da solo e tra maschere grottesche. Kirchner si ritrae (Fig. 8) per un curioso rovesciamento guardato dalla modella vestita mentre osserva la tela e appare nudo sotto l’accappatoio col pennello ad un’altezza equivoca, e in un altro quadro, vestito da soldato, dà forma all’incubo della perdita della mano destra.

Fig. 5

Fig. 5, Parmigianino

 

Fig. 6

Fig. 6, De Chirico

Fig. 7

Fig. 7,  Boecklin

Fig. 8

Fig. 8,  Kirchner

Fig. 9

Fig. 9,  Zoffany

Le analisi di J. Hall forniscono ulteriori contributi all’interpretazione di molteplici opere, da alcune celebri ad altre poco note ma di eclatante enigmaticità: Las Meninas di Velazquez, L’autoritratto come allegoria della pittura di Artemisia Gentileschi, L’autoritratto sul cavalletto di Annibale Carracci (quadro nel quadro, con un cane e un gatto), L’autoritratto con clessidra di J. Zoffany (l’autore, circondato da oggetti che si riferiscono al passare del tempo e alla morte, riesce a cogliere sul proprio volto un’espressione di estatico stupore e abbandono in un sorriso triste, Fig. 9).

E tanti altri…



L’ultimo autoritratto di Munch

L’Autoritratto tra l’orologio e il letto, 1940-’42, è l’ultimo di una lunga serie di autoritratti di Edvard Munch (Fig. 10).

L’uomo si offre allo sguardo altrui con l’aria dimessa e indifesa, ormai vecchio (ma senza un’età riconoscibile?). Il colore cola, le stoffe stridono. La vita appare misera nell’ambiente angusto, dove manca l’aria del cielo. La veste anonima ha il grigiore conformista nella forma, è divisa convenzionale (o “sarcofago”?) di quelle meste sembianze. Queste sono apparenze? quali sono i suoi pensieri? cerca misericordia? grazia della vita? come un condannato? c’è una rassegnazione nel suo presentarsi immobile e frontale? ma nei suoi occhi? Pare che la forza vitale dell’uomo si sia trasferita tutto intorno, nel colore, nel sangue di graffi, solchi, strappi. Le sprezzature tecniche accentuano il realismo di uno stato d’animo. È un’opera vitale. C’è una “finzione”? quell’atteggiarsi e mostrarsi la rendono più vera.

Fig. 10

Fig. 10, Munch


È un arido sentire, senza pianto. È una figura smunta, rinsecchita. La sua ombra è una finestra dove si riflette una croce. La pendola allungata s’affianca come un alter ego con il quadrante rotondo che riprende la forma della testa: somiglia a una bara? Segna il tempo che sta per scadere: Munch morirà due anni dopo. Gli oggetti quotidiani assumono il senso di simboli di morte (Eva Di Stefano)

Munch negli ultimi anni si ritrae con gli occhi in ombra, come spenti con l’asimmetria e il decadimento, eppure sembra altero; il volto affilato, aristocratico e persino un po’ snob della giovinezza, è divenuto tondeggiante per la calvizie della parte superiore della testa.

Al muro un ritratto inconoscibile o irriconoscibile, un nudo, poi una porta: sono la sua vita passata e il futuro che l’aspetta?

La conoscenza della poetica di Munch può confondere. Qual è l’espressione di quest’uomo? modesto è il mondo che lo circonda? È la materia di cui è fatto, non lui. È un ritratto che nasconde una rivolta? povero e disgraziato è il mondo e dunque anche lui? ma solo per questo?

È interessante il confronto con la foto che probabilmente ha “ispirato” il quadro. Munch aveva notevole considerazione e sicurezza del valore del proprio lavoro e la foto lo mostra in posa, orgoglioso delle sue opere da cui è circondato. Nel ritratto egli rinuncia alla disinvoltura delle mani in tasca e all’eleganza della cravatta, certo tradisce la foto per mostrare l’angoscia dell’esistenza e un io più vero; ma è davvero così fino in fondo? con quale sguardo si presenta? Dopo una grave malattia agli occhi, Munch s’immagina che un uccello rapace ferisca il suo occhio e lo disegna, poi negli ultimi autoritratti le orbite sono buie.

Munch dipinge spettri raggelati, ma spesso sono gli altri, gli sconosciuti: non è così per la fanciulla malata, per se stesso. Se il grido è il suo (che poi proietta sulla natura) è quello della sua anima messa a nudo. La fama universale dell’opera, ripresa più volte, il “successo” postumo di Van Gogh si spiegano con la verità, la profondità, del dolore, nel quale anche l’uomo comune può riconoscersi. L’artista è un uomo solo. La condizione dell’artista, la solitudine, è l’orizzonte dell’individuo nel mondo “borghese” del quale denuncia l’ipocrisia o la bugia. Se è come avesse creato una sola opera, quell’opera non sarebbe mai stata né concepita, né realizzata senza tutte le altre.

Munch svuotato non poteva sostenere per una vita intera uno scandaglio simile. De Sanctis chiese alla letteratura “le lacrime delle cose” ma di fronte alla “verità” si è disposti ad accettare anche le lacrime dell’artista, per la loro evidente e profonda sincerità.

Il letto, con l’occhio-rombo nella coperta dal disegno spigoloso e vistoso, non pare del tutto convincente che sia il capezzale. Non sembra quello che dovrà accogliere un morituro, non è il letto della malattia e della morte tante volte dipinto da Munch. La conoscenza della poetica solita dell’artista può fuorviare qualche interpretazione.

Munch va dal naturalismo al simbolismo che confluiscono poi in uno stile personale che anticipa, dopo Van Gogh e insieme a Ensor, l’espressionismo. Egli torna più volte sul tema della fanciulla malata, sembra che la sua pittura parta da lì, dove rivive la malattia della sorella che lo segue per sempre, insieme ad altri lutti familiari. La ragazza non mostra avvilimento o tristezza, abbandona la mano a colei che potrebbe essere la madre (nel caso del pittore la madre era già morta) abbattuta dal dolore, col capo chino piegato dalla sofferenza, senza la forza di guardare.

Tutto va a finire nell’urlo, quando non ci sono più parole, quando la disperazione deve essere gridata e quel gesto di tapparsi le orecchie è per non sentire l’urlo della natura, ma è anche quello tipico dello sgomento.

Munch si ferisce con un colpo di pistola durante un litigio con una donna: un “incidente” che ricorda l’autolesionismo di Van Gogh, e quello del protagonista di Pan di Hamsun, che si spara in un piede.

Munch condivide la sofferenza esistenziale nordica, scandinava, di Ibsen, Strindberg, Kierkegaard, e che sarà di Bergman; un “difficile” rapporto con la morale e la fede religiosa, fatto di ribellione e vicinanza.

Tra il letto e l’orologio è l’ultima grande opera. La Norvegia in quegli anni è occupata dall’esercito della Germania nazista. La sua vita è quella dell’isolamento, appartata; ed è alla fine.

Munch traduce la foto in un ritratto interiore dove è anche possibile che si consegni alla morte, ma in un modo inaspettato conoscendo l’esagitata drammatizzazione di altre opere: forse con accettazione? Non lo sappiamo, non lo sapremo. Ha affidato all’arte il compito di svelare ciò che la foto non coglie? se i simboli sono coscienti e voluti, ha inteso presentarsi come pronto alla morte? Siamo noi a cui Munch si presenta che possiamo provare a immaginare le risposte.



Un cenno (scontato) all’attualità

Nel mondo odierno la “facilità” della fotografia (e della ripresa filmica) fa sembrare semplice la visione di sé e produce un’inflazione della propria immagine (e delle immagini).

Già con l’autoritratto fotografico e la body art, di cui un precursore è stato Duchamp, “padre e madre” dell’arte moderna, la storia dell’autoritratto andrebbe completata e proseguita. Il recupero e la centralità della corporeità, nel bene e nel male, nel Novecento, oltre all’arte (perfomance art, happening, ecc.) attraversa la psicologia e la filosofia (Merleau-Ponty), il teatro (Artaud e il teatro della crudeltà), la politica (la biopolitica di Foucault).

Le torture che l’artista s’infligge hanno più motivazioni. Sono la denuncia resa esplicita di una violenza sociale? Il performer, “flagellante” (di un neo-medioevo? In nome di quale fede? Per espiare quale peccato?) ripete, con un rito pubblico, il sacrificio, terribile a dirsi, di Van Gogh che si ferisce una prima volta (come punizione?) e poi definitivamente (in modo irriflesso? Come richiesta d’aiuto?) fino a provocare la morte.

Col nuovo millennio, quasi sempre senza intenti artistici, si è iper-diffusa la pratica del selfie.Con la simbiosi uomo-telefonino, col mezzo meccanico ormai appendice del corpo, la foto di sé è costantemente in agguato. Il selfie deforma (come nell’autoritratto del Parmigianino), con lo scorcio, il braccio allungato per allontanare il punto di ripresa ed è finalizzato a comparire sui social, consegnato al pubblico degli “amici”. È l’immagine che si vuole o si è disposti a offrire di sé e soprattutto col suo sfondo è la testimonianza di un avvenimento o di una situazione che ci vede protagonisti.

Ma questa è tutta un’altra storia.

 

 

Testi consultati

Alberto Boatto, Narciso infranto: l’autoritratto moderno da Goya a Warhol,1998.

James Hall, L’autoritratto. Una storia culturale, 2014.

Eva di Stefano, Munch,1999.

Eva di Stefano, Schiele. Gli autoritratti,2003.

Flavio Caroli, Storia della fisiognomica,1995.

Mario De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, 1959.

Cristina Baldacci e Angela Vettese, Arte del corpo. Dall’autoritratto alla body art,2012.

Rudolf e Margot Wittkover, Nati sotto Saturno, 1968.