Testuali parole

Vincenzo Agnetti: parola, performance, installazione

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Vincenzo Agnetti nasce a Milano il 14 settembre 1926; compie i primi studi nel Liceo artistico di Brera, dove si diploma, per poi seguire la scuola del Piccolo Teatro di Milano, sotto la guida di Giorgio Strehler, e qui incontra la futura moglie Bruna Soletti. L’esperienza nel mondo del teatro ha costituito certo un perno importante nella sua educazione, sia per quanto riguarda il gusto squisitamente scenografico che caratterizza molte delle opere, sia per quel che concerne l’importanza data all’osservatore come componente attiva, che vi partecipa fisicamente e (se non principalmente) mentalmente.

Le sue prime ricerche in ambito pittorico guardano all’Informale, una corrente sicuramente troppo forte nella metà del ‘900 per non coinvolgere anche il giovane artista, seppur per poco tempo e senza lasciar tracce. Nonostante la possibilità di ritrovarvi la libertà comunicativa che andava cercando, Agnetti percepisce piuttosto la limitatezza del mezzo pittorico, ancora prediletto ma spesso soffocante; se ne allontana, preferendogli la produzione poetica e critico-letteraria.

Tra gli anni ’50 e ‘60 instaura un rapporto di amicizia e scambio con Enrico Castellani e Piero Manzoni che, insieme ad Agostino Bonalumi, danno vita al gruppo artistico Azimut, punto di riferimento per le sperimentazioni più avanzate nella Milano dell’epoca, e alla quasi omonima rivista Azimuth.

Nel 1962 si trasferisce con la famiglia in Argentina, dove resta fino al 1967, lavorando nel campo dell’automazione elettronica.

È definita Arte no oLiquidazionismo questa fase della vita di Agnetti, caratterizzata da una quasi totale assenza dal mondo dell’arte, prima assiduamente frequentato, se non fosse per alcuni sporadici contatti epistolari mantenuti con le sue personali conoscenze a Milano.

Numerosi sono i quaderni, intitolati Assenza, le pagine di appunti prodotte come un fiume in piena di idee e progetti, caotiche, disorganiche quanto granitiche, pensieri depositati e mai più toccati, frutti di un’incessante attività di scrittura, come ricorda la figlia Germana, di quegli anni in Argentina.

Le duemila pagine scritte portano in seno il concetto di dimenticato a memoria.

Un ossimoro, inconciliabile nelle sue parti, paradossale alla stregua della vita. Ricordare e dimenticare, come avviene per la cultura che è l’apprendimento del dimenticare; come si fa con il cibo: dopo averlo ingerito se ne perde il sapore per lasciar spazio all’energia.

 

Libro dimenticato a memoria, 1969

 

Nei diari, cimeli indecifrati di quegli anni fuori dall’Italia, risiede lo sfogo di una mente in continua ebollizione, che produce e poi rimuove, che scrive e poi cancella.

È in atto, in Agnetti, una ricerca artistica che va oltre il puro colore, il rapporto con la tela o l’energia sprigionata in un gesto. Le sue attività si coagulano nella necessità di liberare la mente, spaziare verso nuove possibilità non ancora calpestate. Il valore dell’opera d’arte non è più dato dalla componente fisica e materiale, ma dall’impalpabile presenza dell’idea.

Piero Manzoni, padre di un concettuale ante litteram, pone l’accento sulla possibilità di guardare alla superficie della tela con estrema autonomia e autodeterminazione, verso uno spazio non tanto infinito quanto infinibile, come da lui definito, e altrettanto tale è anche il colore nell’uso che se ne fa nei monocromi: “una superficie d’illimitate possibilità è ora ridotta ad una specie di recipiente in cui sono forzati e compressi colori innaturali, significati artificiali. […] Perché non cercare di scoprire il significato illimitato di uno spazio totale, di una luce pura ed assoluta?”1

Tornato in Italia, Agnetti inizia a produrre opere varie, tasselli di filoni diversificati, ove spesso cede il posto alle parole per esprimere immagini, come per esempio in Ritratto – Chiuso e ucciso da una vita meravigliosamente non capita, feltro inciso e dipinto risalente al 1971, tragico testamento del dramma umano. Tematica sicuramente nelle corde dell’artista, l’opera tratta della continua e costante riflessione che soffoca e opprime l’uomo dalla notte dei tempi, dove conta più dove andiamo che da dove veniamo, in cerca di sicurezze in una vita che si veste invece di sublimi incertezze.

Figurativamente siamo chiusi in un labirinto senza un’uscita che possa dirsi veramente sicura, dove l’unica possibilità di evasione è la morte, schiacciante mistero e punto d’arrivo verso l’ignoto, ma dalle parole di Agnetti emerge un rassicurante meravigliosamente: alla fine dei nostri giorni, lasceremo questo mondo con un sorriso sulle labbra, perché nonostante tutto è stato bello vivere senza capire.

L’incredibile capacità di Agnetti, in tali creazioni, risiede, a mio avviso, nella sapienza con cui, nello scegliere ed accostare le parole, riesca a dar vita e forma ad immagini che nitidamente appaiono nella mente dell’osservatore, che ne stimolano l’interiorità, perché possa guardare all’opera come ad un racconto coinvolgente.

Alla Galleria Blu di Milano, nel 1970, ha luogo la mostra che inaugura la serie degli Assiomi, anche se l’artista ne fa risalire la produzione, o comunque lo studio, dal 1968.

 

 

La luce era la più lenta perché anche il vuoto riusciva a frenarla, 1971
 

Sono opere composte da lastre di bachelite nera, incise e trattate con colori ad acqua o nitro e riportanti frasi tendenzialmente tautologiche o contraddittorie. Vi si coglie una volontaria serietà e un rigore di fondo dati sia dal carattere quasi scientifico che utilizza (servendosi di linee, punti, grafici e numeri), sia dal materiale stesso che nella sua freddezza rispecchia perfettamente il processo mentale che dietro vi si cela. Lastre statiche e dall’importante peso visivo, blocchi neri che conducono l’occhio dell’osservatore verso le profondità di un universo impenetrabile.

Evidenti quindi i caratteri che differenziano gli Assiomi dai Feltri, che al contrario presentano frasi di tipo letterario-poetico, accostate a un materiale molto più morbido e caldo.

 

E poi il teatro. Chiave di volta di tutto il suo operato. Agnetti è infatti assolutamente, magnificamente teatrale, nell’allestimento materiale, nell’utilizzo delle parole, in ogni caso sempre scenograficamente d’effetto.

 

 

Progetto per un Amleto politico, 1973
 

Ne fa un filone della sua produzione: il Teatro Statico. Opera certamente rappresentativa è Progetto per un Amleto politico, esposta per la prima volta nel 1973 presso la Galleria Forma di Genova. Agnetti occupa l’ambiente in questione, dando vita a un’installazione, o impianto, termini che ricorrono spesso quali definizioni dei suoi lavori, come nell’Elisabetta d’Inghilterra del 1976.

Pone al centro un palchetto, statico e scultoreo, pronto ad accogliervi qualsivoglia narratore o decantatore, ma che per l’interezza della sua esistenza rimane vuoto, circondato, nel perimetro della stanza, da bandiere e scritte e accompagnato dalla voce dell’artista che onnisciente risuona mentre pronuncia serie di numeri.

Chiaro punto di partenza, da cui Agnetti muove verso la definizione di un processo concettuale, è il dramma seicentesco di William Shakespeare. Al principio vi è Amleto, emblema dell’uomo moderno, dubbioso e calcolatore, rappresentante dell’uomo qualunque, come dice Giorgio Verzotti; vi è il suo monologo e soprattutto la forza introspettiva che da esso scaturisce. Ma un uomo che, solitario, parla a sé stesso, frappone inevitabilmente il proprio io al contatto diretto con il pubblico, e mette in scena un discorso privo di un significato che possa dirsi comprensibile ai più, e anzi sensato solo nella mente del dicitore.

Agnetti desidera ridefinire i caratteri del personaggio, rimodellarlo perché possa fuoriuscire dalla gabbia della propria maschera, dall’insensatezza delle proprie emozioni, per incontrarsi con lo spettatore. Spoglia perciò Amleto delle sovrastrutture che da anni ne dominano la rappresentazione e lo porta a parlare rivolgendosi “al pubblico per il pubblico e non a sé stesso per il pubblico”, come scrive Agnetti in Tradotto, azzerato, presentato del 1973, concetto avvalso anche tramite il pensiero di Oscar Wilde: “Oscar Wilde diceva che non si può evitare il futuro; il futuro del teatro è la sua scomparsa a favore dello spettatore”.

Ciò che muove l’artista è quindi la ricerca di quel punto d’incontro fra individui, apparentemente perduto, acquietando la spasmodica ricerca di un linguaggio che possa ritenersi veramente universale, per soddisfare il bisogno di sentirsi capiti e di capire.

Ma un monologo, privato della propria carica emozionale, diviene semplice discorso, che intrinsecamente tende alla ricerca di approvazione, come nei politici: cibo per l’anima da ritrovarsi non più negli applausi, come un vero mattatore, ma nei voti. Quanto compiuto non può dirsi ancora completo, occorre che un gradino in più sia salito, perché la fredda affermazione sostituita alla dubbiosa introspezione genera inevitabilmente un comizio. Quest’ultimo ben si adatta al palchetto posto al centro dello spazio espositivo, come se tutt’intorno fosse gremito da una folla pronta a esprimere il proprio consenso, ma mal si addice all’esigenza di ritrovare un contatto vero e sincero, avulso da qualsiasi strumentalizzazione, con il pubblico.

A conti fatti il vero problema non è da riscontrare, perciò, in Amleto come persona e personaggio, ma nel medium utilizzato, nel metodo scelto per rivolgersi all’osservatore, perché come dice Agnetti, “una parola vale l’altra ma tutte tendono all’ambiguità”2 e se vi è ambiguità non può esservi naturalmente comprensione; è quest’ultimo, perciò, il fulcro intorno cui verte l’intervento trasformativo attuato dall’artista: la ricerca della comprensione.

Certo il compito è arduo, se non totalmente impossibile, poiché risulta quasi utopico pensare che due parti di un discorso, due distinti interlocutori, possano giungere ad una completa intesa. Anche Pirandello lo spiega in Sei personaggi in cerca d’autore: “Crediamo di intenderci; non c’intendiamo mai!”3

Atto ultimo: i numeri. Le parole, mezzo radicato nella soggettività, sono svuotate di significato e significante, sostituite da mere e oggettive cifre: eccole quindi giunte, nuovo esperanto, come unico linguaggio che possa dirsi veramente universale, ma al contempo indecifrabile; di vivo, resta solo l’intonazione.

Il tutto è paradossale, ridondante circolo infinito privo di un risultato soddisfacente; non vi è soluzione, poiché non vi può essere un vero linguaggio universale se non con un pizzico di sentimento che ci rammenti l’importanza del contatto umano e che ad esso possa essere riferibile, ma neanche un linguaggio particolare veramente condivisibile.

A questo punto Amleto non conta più, né lui, né il suo monologo, né tanto meno il suo ruolo nel teatro; chiunque potrebbe pronunciare quei numeri e proprio per questo il suo personaggio scompare, lasciando il palco vuoto e una voce a farne le veci.

Parola, performance, installazione: Agnetti scrive, parla, abita l’arte in molteplici forme e sfumature, crea tutto ciò che può essere plasmato e vive spazi e tempi generati ma sempre esistiti negli angoli dell’inconscio.

Bruno Corà ne parla come di un poeta che ha reso possibile “l’accesso al non-senso” e scrive: 

“Se, infatti, Vincenzo Agnetti è da considerarsi poeta nell’accezione più vasta del termine, in quanto la sua originalissima azione ha posto in essere […] più forme di quell’indicibilità, egli lo è tuttavia anche per aver scritto versi autentici, con una lingua le cui frequenze si coniugano al “nuovo” di tutto il suo pensiero e della sua arte”4.

Nell’arco della sua vita Agnetti ha creato, ha parlato di sé, delle sue opere e di altri autori. È stato poeta, scrittore, artista: uomo artista
Diverse entità, una non meno importante dell’altra; si tratta piuttosto di linee parallele, binari vicini che corrono verso la medesima direzioni: la libertà e il nuovo.

Agnetti muore il primo settembre del 1981, colpito da un’emorragia mentre passeggiava per le vie di Milano, nel pieno della sua attività, alle prese con opere come Lucernario, che aveva in progetto a New York, e che rimarranno nel suo studio come testimonianze di una mente che avrebbe avuto ancora molto da offrire.

 

Note con rimando automatico al testo

1 Manzoni P., Libera dimensione, in “Azimuth”, n. 2, 1960, pp. 18-22, ora in Meneguzzo M. (a cura di), Azimuth e Azimut. 1959: Castellani, Manzoni e…, Milano, Mondadori, 1984

2 Agnetti V., Tradotto, azzerato, presentato, Milano, Galleria Alessandro Castelli: Edizione L’uomo e l’arte, 1973, p.10

3 Pirandello L., Sei personaggi in cerca d’autore (1920-21), Milano, Mondadori, 2014, p.40

4 Corà B., Vincenzo Agnetti: il dicitore, in: Meneguzzo M. (a cura di), A cent’anni da adesso, catalogo della mostra, Milano, Slivana, 2017, p. 44. Vedi anche: Bonito Oliva A., Verzotti G., Vincenzo Agnetti: Retrospettiva 1967-1980, catalogo della mostra, Milano, Skira, 2008