Testuali parole

Il ruolo dei capelli nel mito di Beatrice Cenci

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Guido Reni, Beatrice Cenci, olio su tela cm 64,5 x 49, Palazzo Barberini, Roma.

“Ecco, madre, stingetemi la cintura, e raccoglietemi i capelli in un semplice nodo; sì, così va bene. Quante volte l’abbiamo fatto l’una per l’altra; ora non lo faremo più, Signore, siamo pronte. Bene... tutto per bene”. Si conclude così, con un toccante riferimento ai capelli, il dramma I Cenci, scritto da Percy Bysshe Shelley nel 1819. Shelley aveva conosciuto la triste storia di Beatrice Cenci grazie a un manoscritto, ma inizialmente doveva essere la moglie Mary, sull’onda del grande successo ottenuto con il Frankenstein, a dare corpo romanzesco alla vicenda. Tuttavia la scintilla fatale, quella che indurrà Percy a cimentarsi con la storia, non è attribuibile al manoscritto, bensì alla visione diretta del ritratto di Beatrice (esposto allora a palazzo Colonna) durante l’inevitabile Grand Tour in Italia. Ritratto, ed è bene ricordarlo, di grande malia e di attribuzione controversa, almeno fino ad una manciata di anni fa. Comunque sia ragionevolmente non di Beatrice.

La torbida tragedia di Beatrice Cenci, degna di un gothic novel, è assai nota, se non altro perché raccontata, o solamente citata, in non si sa quanti romanzi e film; però un breve accenno può contribuire a richiamarne la singolarità. I fatti, nonostante s’intreccino numerosi personaggi e avvenimenti, sono quasi semplici, lineari: il 9 settembre del 1598 viene ritrovato morto il nobile romano Francesco Cenci, uomo crudele, omicida e padre incestuoso. Apparentemente si tratta di un incidente, di una maldestra caduta da una torre; in realtà il goffo assassinio è stato compiuto dalla moglie Lucrezia e dalla figlia Beatrice con la complicità da due uomini male organizzati e, se possibile, ancor meno scaltri. Tutti sanno che si è trattato di un atto di ‘giustizia’, ma la macchina del lungo processo romano non si arresta, anzi, finirà con lo stritolare tutti i protagonisti dopo averli lungamente detenuti e torturati. Beatrice sarà l’ultima degli indagati a confessare, e lo farà solo perché sottoposta ad torturam capillorum (cioè sospesa per i capelli) e squassata con la corda. A un anno dalla morte del padre verrà condotta al patibolo e decapitata: “Aveva la bocca piccola, i capelli biondi e naturalmente inanellati. Mentre andava a morte, quei capelli biondi e ricciuti le ricadevano sugli occhi e le davano una grazia che moveva a pietà” (da un documento dell’epoca riprodotto da Stendhal nel suo Cronache italiane). Gli stessi capelli che resteranno impressi nelle cronache quando lei, assunta la posizione indicatale dal boia, li scosta per offrire il collo alla lama.

Si dice facesse parte della trabocchevole folla radunatasi davanti a ponte Sant’Angelo per assistere all’esecuzione, anche un giovane pittore milanese, tal Caravaggio, intento a cogliere movimenti e teste mozze per riprodurli, poi, nel suo Giuditta e Oloferne. Si dice, si ipotizza. Di sicuro “la morte della giovane, che era assai bella et di bellissima vita ha commosso tutta Roma a compassione”, come testimoniato da Baldassarre Paolucci, agente del duca d’Este.

Pulcherrima, giovane, infelice e vittima di una giustizia brutale, Beatrice ha quanto serve per diventare una leggenda romantica, e a tutto ciò si aggiunge anche un unico controverso ritratto dipinto da Guido Reni (ormai l’attribuzione è pressoché definitiva). In realtà è la tradizione a identificare Beatrice nella fanciulla ritratta in quel quadro, così come è sempre la tradizione a sostenere che l’artista lo realizzò mentre la fanciulla si trovava in carcere.

Come scrive Julia Kristeva: “il voyerismo risulta una necessità strutturale nella costituzione della relazione con l’oggetto”, e così, grazie al supposto ritratto, e forse ancor più alla posa di questa fanciulla colta quasi di sorpresa, ci ritroviamo tutti a scrutare Beatrice in effige, proprio come dei voyeur. Il bel dipinto, infatti, immortala una giovane a mezzo busto, con una sorta di turbante bianco che, come la veste-mantello, si staglia netto sul fondo scuro. Il volto è grazioso, non ci sono dubbi, malinconico e segnato dalla sofferenza, eppure intatto. Sono però gli occhi a non tradire pena, e in quel movimento di tre quarti fissano lo spettatore senza fretta, morbidi e apparentemente privi di una vera domanda o supplica (ben si conosce la fierezza di Beatrice dagli atti processuali). Un po’ scomposti e radi, dal turbante fanno capolino i capelli che tanta parte avranno nei ricordi e nel triste epilogo.

E infatti, sono stati proprio quei capelli ad esercitare nel corso del tempo un particolare fascino - a tal punto da far passare in secondo piano altri elementi del volto - quasi avessero la capacità di calamitare l’attenzione degli osservatori. Non a caso strategicamente evocati dallo stesso Shelley.

Un dettaglio, una inezia a ben guardare, eppure quei capelli sono di fatto diventati elemento in grado di sollevare alcune questioni, o per lo meno di diventarne l’emblema, e la cosa non stupisce: “come è dimostrato dalle riflessioni ormai classiche di Kenneth Clark, il dettaglio costituisce il luogo di una ‘esperienza’ certamente non secondaria [...] per l’osservatore come per il pittore” (Daniel Arasse).

I visitatori nell’obbligato pellegrinaggio verso il ritratto sono ancora legioni, lo sono fin dal XIX secolo in particolare, e tra i molti alcuni innegabilmente illustri. “Con occhi azzurri e carnagione chiara, i capelli della Cenci sono dorati”, scrive Herman Melville dopo l’incontro ravvicinato con l’oggetto della seduzione, mentre Nathaniel Hawthorne ci ragguaglia sul fatto che dal turbante “usciva una ciocca o due di capelli fulvi. Gli occhi erano grandi e scuri”. Differenti i ‘colori’ restituiteci dai due testimoni oculari, forse proiezioni delle loro diverse sensibilità letterarie e morali; sicuramente utili, però, per comprendere che se per Melville un’innocente ‘contaminata’ da particolari attenzioni paterne ha il crine biondo, per Hawthorne l’ambigua mescolanza di biondo e bruno si spinge fino a simboleggiare il mistero di una alienazione (dietro alla quale, comunque, si adombra l’incesto, come sostenuto da Leslie Fiedler nel suo, Amore e morte nel romanzo americano).

Eppure, anche al di là delle sensibilità letterarie e al di fuori dei secoli gonfi di romanticismo, i capelli di Beatrice continuano a svolgere un ruolo e a suggerire percorsi, persino erratici. Si è già accennato alla controversa vicenda attribuzionistica che ha coinvolto il supposto ritratto, sintetizzabile in una continua oscillazione tra il Reni e i suoi allievi. Ebbene, anche l’oscillazione sembra aver trovato pace grazie a un accurato restauro, cui ha fatto seguito il verdetto di Rossella Vodret (attualmente soprintendente per il polo museale della città di Roma) - autorevolmente sostenuto da Claudio Strinati - nettamente favorevole al Reni. Non di meno, prima dell’ultimo atto la paternità del grande pittore era stata rigettata a favore della bolognese Elisabetta Sirani (morta nel 1665 a soli 27 anni), una pittrice effettivamente parte della cerchia del maestro, ma unica tra gli allievi a possedere una singolare perizia nella resa di alcuni dettagli, in questo contesto assai significativi: i lunghi capelli fini e le pieghe dei turbanti. Tuttavia, ancor oggi, e a dispetto di ogni altra considerazione, nel sito di Palazzo Barberini si indica come autore Ginevra Cantofoli (anch'essa bolognese nonché attiva nella bottega della Sirani).

Tornerà Beatrice a suscitare nuovi turbamenti e quesiti e attibuzioni? Francamente non lo si può affermare con certezza. Però, a indicare che l'interesse non è del tutto sopito così come le congetture, nel supplemento domenicale de Il Sole 24 Ore dell’11 maggio 2008, Melania Mazzucco scrive: “Quando, nel 1798, i francesi scoperchiarono il pavimento dell’abside in cerca del vassoio d’argento, non trovarono né il vassoio, né la testa, né il corpo. Era scomparsa” (quasi a confermare la credenza in una Beatrice che tuttora si aggira in veste di fantasma). Una versione assai differente rispetto a quella resa da un testimone della profanazione operata dai francesi, il pittore Vincenzo Camuccini, il quale, al lavoro su di un’impalcatura in San Pietro in Montorio, così ce la racconta: “[il teschio] spiccato, si trovava accanto, deposto in un vassoio d’argento e coperto anch’esso da un velo nero, che, al toccarlo, si disciolse in polvere”.