Piero e la Flagellazione

Ronchey e Roeck: due letture a confronto

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Vista la soggettività di molte considerazioni sulla Flagellazione di Piero, un commento scritto in prima persona può essere giustificato, e potrebbe anche rappresentare l'invito ad autori come Silvia Ronchey e Bernd Roeck di fare altrettanto, senza sforzarsi di mantenere il tono obiettivo creato dalle forme impersonali. Da ventuno anni insegno Storia dell'Arte nelle superiori e non ho mai mancato di presentare e descrivere La Flagellazione di Piero della Francesca ai miei studenti. Nel corso degli anni, ho usato come libri di testo i manuali più diversi, dal vecchio Argan all'Adorno nelle sue varie edizioni, dal Giuliano-Briganti-Bertelli al Cricco, passando attraverso trattazioni più semplici come quelle proposte dalle edizioni Bruno Mondadori, Paravia e altri, e su tutti questi volumi La Flagellazione era sempre presente, misteriosa e elegante come pochi altri quadri.

I libri di scuola ne propongono di solito due interpretazioni, proprio quelle in oggetto: la prima “facile” secondo cui il giovane biondo in primo piano sarebbe Oddantonio di Montefeltro, paragonato al Cristo flagellato sullo sfondo; la seconda “difficile”, per cui i personaggi davanti starebbero discutendo sulla possibilità di una crociata per salvare Costantinopoli dai turchi, e quindi Cristo sullo sfondo sarebbe una metafora del cristianesimo ferito dall'Islam. La struttura enigmatica di tanti quadri di Piero piace agli studenti; in questo caso, i tre personaggi sul proscenio sono visti come delle curiose marionette, anche se la somiglianza tra il barbuto e la figura seduta sullo sfondo è spesso oggetto di attenzione. Di Piero tuttavia i giovani di solito non apprezzano la rigidità e l'inespressività delle figure, a meno di non percepire la purezza geometrica degli schemi proposti.

Un'annotazione a riguardo: il libro di Roeck sarebbe sicuramente leggibile in classe, quello di Ronchey sicuramente no. E io credo che questo sia un argomento da tenere in conto quando si parla di storiografia artistica.

 

I contenuti

Scrive all'inizio Ronchey: “Il lettore non ha davanti un libro di storia dell'arte, ma unicamente e propriamente, un libro di storia. A scrivere non è uno storico dell'arte ma solamente uno storico. Anche se a volte, nel testo, i due si incontreranno e dibatteranno tra loro, l'ultima parola andrà quasi sempre al secondo. Ma, a dispetto dei nomi e delle parti, la dialettica rimetterà continuamente in gioco ogni giudizio, e lo rovescerà” (pag. VIII). In questo mettere avanti le mani si intuisce tutto il vero problema della lettura proposta ne L'enigma di Piero: che sia un libro di storia è affermazione superflua, che non sia un libro di storia dell'arte è purtroppo la verità, ma in tutt'altro senso rispetto a ciò che l'autrice intendeva. Il lettore dovrebbe immaginare, per confronto, un libro sull'assedio di Costantinopoli basato non sui documenti storici, ma sull'iconografia dell'assedio: come dire un libro curioso e magari bellissimo, ma del tutto inutile per capire qualcosa su Bisanzio, sull'impero turco, sulla politica del papato, sugli scontri di religione.

Giuda? Bessarione? Federico?Il libro di Roeck si presenta invece a questo modo: “La tesi principale di questo libro è che, dietro alla criptica iconografia della Flagellazione, si nasconda un dramma consumatosi cinque secoli fa, costituito di tutti gli ingredienti indispensabili per una «novella macabra» rinascimentale. Si parlerà di congiure, guerre e omicidi, di vendette insanguinate, fuga ed esilio” (pag. 13). Queste parole dell'autore parrebbero autorizzare la lettura un po' frivola del libro, e sarebbe un errore, commesso anche da qualche sprovveduto giornalista che ha parlato di un nuovo, ma maldestro Dan Brown. In realtà, a me pare che Roeck utilizzi uno stile spesso disincantato, probabilmente nel tentativo di alleggerire l'importanza stessa che assegna all'opera. I suoi riferimenti iconografici sono apparentemente validi, ma decisamente mirati al proprio discorso, così che immagini importanti come il cosiddetto San Giuliano di Piero, dal volto simile al presunto Oddantonio, o gli affreschi di Gozzoli a Firenze, definiti chiassosi (pag. 190) da Roeck, sono in pratica trascurati.

D'altro canto, leggendo L'enigma di Piero ero sinceramente combattuto tra ammirazione e irritazione, perché l'enorme lavoro di Ronchey è sorprendente, e ho imparato molto leggendolo, in particolare sul legame tra l'impero d'oriente in disfacimento e l'impero nascente russo, la cui prima zarina fu l'erede al trono di Bisanzio. Allo stesso tempo, il libro si direbbe scritto anche per dimostrare l'ignoranza degli storici dell'arte, e francamente non ne capisco il motivo, a meno di una questione personale.

Il gioco a rimpiattino tra ipotesi, deduzioni, dimostrazioni, prove, indizi, e soprattutto ricerche di analogia formale e fisionomica, è faticoso anche se a tratti appassionante, ma il risultato finale, presentato via via e sempre in modo perentorio, appare tanto perfetto a posteriori quanto improbabile. Il pittore rinascimentale secondo Ronchey è una specie di cronista-enigmista che si impegna in una descrizione realistica e complessa, cercando in tutti i modi di renderla verosimile, ma allo stesso tempo nascondendola; costui non è il pittore rinascimentale noto agli studiosi d'arte. I principali dubbi poi non provengono tanto dalla pretesa scientificità dell'analisi o dal metodo, quanto dal buon senso, o meglio dal senso comune: se davvero la Flagellazione propone una riflessione e una proposta di crociata, materializzando il pensiero del cardinale Bessarione, come mai mancano proprio gli altri protagonisti, cioè il papa Eugenio IV, o anche il papa successivo Pio II, e l'ultimo imperatore Costantino XI morto nella difesa di Bisanzio, e i patriarchi di Costantinopoli? e quando mai un pittore di arte sacra, e soprattutto per commissione di chi, ritrarrebbe il cardinale Bessarione come un giovane trentenne, proiettandolo ai tempi del Concilio di Ferrara, invece che come un saggio e potente cinquantenne in grado di condizionare l'intera politica italiana? e come mai, se Piero era così attento alla questione bizantina, non lo erano altrettanto i suoi contemporanei (ad eccezione di alcuni come Benozzo Gozzoli, citatissimo da Ronchey, e come Antonello da Messina, non citato affatto) e non lo fu lui stesso in altre opere? e infine, non avrebbe avuto un sapore sacrilego usare il soggetto della Flagellazione per esprimere un pensiero di politica internazionale? Ronchey non sembra avere questi dubbi e nel libro non affronta questi argomenti, se non marginalmente.

 

Le ossessioni

La lettura di Roeck è invece più scorrevole e -se si vuole- più accogliente di quella di Ronchey, richiedendo meno concentrazione da parte del lettore. Dati e notizie, e per fortuna anche immagini nel contesto, sono abbondanti in “Piero della Francesca e l'assassino”, anche se permane la complessità degli argomenti, in particolare delle datazioni, che devono rispettare eventi, alleanze e congiure politiche note, e della storia delle dinastie italiane, tra parentele e alberi genealogici complicatissimi. Non si creda tuttavia che Roeck appaia più oggettivo di Ronchey perché più sintetico, infatti se Ronchey appare ossessionata da Bessarione, Roeck lo è da Federico, e la parzialità dei due testi finisce per pareggiarsi.

Nicolò? Piero? Roeck ha comunque diverse soluzioni nuove al suo arco, tra cui quella di Giuda-Federico per l'uomo barbuto e la comparsa di Paride in cima alla colonna. I calzari di Pilato-Giovanni VIII che tanto assillano Ronchey, sono ignorati da Roeck, che qui sembra peccare di superficialità, anche se è vero che la tanto ammirata precisione di Piero non avrebbe mancato di rappresentare sulle scarpe dell'imperatore bizantino anche le aquile bicefale che le adornavano.

Ma leggiamo adesso qualche brano in parallelo, partendo dalla descrizione di Federico di Montefeltro fornita da Ronchey: “Si faceva sempre leggere qualcosa in latino, durante i pasti, per esempio le Storie di Livio. Gli piaceva anche l'italiano di Dante, Petrarca e Boccaccio. Soprattutto adorava ala filosofia. Aveva una mente metodica e ordinata. Ogni cosa alla sua corte era ben organizzata e rigorosamente fuori moda come in un monastero. Per esempio, voleva che i libri fossero scritti con la penna, su pergamena, e [...] manteneva una squadra di copisti. Mangiava poco, evitava i dolci e non beveva vino, ma sidro di ciliegia, di melograna o di mela” (pag. 393).

Ecco invece un brano di Roeck sulla stessa persona: “... anche la carriera del Montefeltro offre una quantità di indizi che si adattano al profilo di una persona violenta e senza scrupoli... Nelle sue piccole e grandi campagne militari Federico si mostra come un veterano incallito, che porta devastazione, fuoco e morte tra i contadini, quando conviene alla sua causa (diciamo pure alla sua borsa)” (pag. 38).

Ora confrontiamo l'ipotesi di Roeck sul personaggio barbuto, che lo studioso identifica in Giuda: “La tesi che Piero nelle vesti del personaggio barbuto in primo piano voglia rappresentare proprio Giuda è suffragata dalla tradizione iconografica. Sono riconducibili allo stesso tipo sia il Giuda di Taddeo Gaddi nel refettorio di Santa Croce, che quello dell'Ultima Cena del Castagno, simile al Giuda di Piero fin nel colore della veste. E in generale nell'iconografia di Giuda ricorrono spesso gli stessi colori: mantello rosso, stivali gialli”(pag. 73). Ecco invece quella di Ronchey, che è inframezzata da citazioni di Clark e di altri: “... la prima figura del proscenio del quadro ... è un individuo barbuto, «palesemente un tipo di erudito greco» come lo vede Clark, in veste aulica bizantina: verosimilmente un diplomatico fuori sede, come suggeriscono fra l'altro i calzari da viaggio ... L'assonanza del primo personaggio del proscenio con Pilato/Giovanni VIII, non è solo spaziale e coloristica, ma è dunque anche etnica: è il secondo greco del quadro, il secondo bizantino”(pag. 286).

 

Conclusioni

Si potrebbe andare avanti nel confronto, ma si finirebbe, cedendo al risvolto comico e paradossale di leggere descrizioni opposte della stessa cosa, per sminuire il lavoro serio e rilevante di due valenti studiosi. Tutto questo è semmai la dimostrazione che, una volta stabiliti dei riferimenti, la valanga delle conseguenze può accecare anche l'evidenza. La sensazione finale è che sia l'erudita studiosa di Bisanzio, sia il dinamico investigatore delle corti rinascimentali abbiano avuto un'intuizione sulla tavoletta di Piero e che tutta la loro ricerca sia tesa a dimostrarla a posteriori.

Oddantonio? Toomaso Paleologo?Ronchey in particolare, che segnala la frequente assenza di criteri razionali nella ricerca storico-artistica, affronta il problema finale dell'orecchio a punta del presunto Nicolò III (si sarà notato che in questo ambiente di ricerca artistica i nasi e le orecchie sono molto importanti!) con superficialità. Lo snodo è cruciale, perché se l'uomo in broccato non è Nicolò III, la città non è Ferrara e il convegno non è quello del 1438, e quindi l'orecchio sbagliato inficia tutta la ricerca. Nicolò III infatti, sulla base della ritrattistica contemporanea tanto usata nel testo, non aveva orecchie del genere, e il personaggio rappresentato da Piero, come nota proprio Bernd Roeck, appare identico in altri quadri dello stesso Piero, in cui certamente Nicolò III non poteva trovarsi.

Come detto, Roeck ne parla diffusamente e anzi finisce per lanciare l'idea che quel signore paffuto con i capelli rasati sia l'immagine stessa di Piero, come una sua firma ! Ma è chiaro che si tratta comunque di un volto generico o tipizzato, come del resto è schematica e generica gran parte della pittura di Piero. Ronchey trascura di approfondire il tema perché il suo castello in quel punto rivelerebbe una crepa profondissima?

In conclusione, se voglio cercare due parole di commento, a me sembra che l'intuizione della studiosa bizantina potrebbe essere sensata, e forse lo è in parte, ma doveva essere affiancata da altre tesi e non da decine di pagine dedicate alla stirpe dei Paleologo. E non basta liquidare in poche righe le complesse letture degli studiosi precedenti, tra cui quella fondamentale di Marilyn Lavin, dando al lettore la sensazione che siano addirittura campate in aria, ma senza dimostrarlo affatto.

Anche la tesi primitiva di Roeck potrebbe essere sensata, magari senza cercare messaggi criptici nel quadro, ma solo una commemorazione del duca assassinato e una generica accusa a un traditore, a un tradimento. Perché l'unica certezza, ritengo, è che il quadro di Piero, se non emergeranno elementi nuovi (altre opere, ritratti, documenti), non sia decifrabile alla luce delle nostre conoscenze attuali, ma resti nella sua forma, nella sua luce, nella sua composizione, un'immagine emblematica e perfetta della pittura italiana nel primo Rinascimento.

 

 

Schede

Bernd Roeck, Piero della Francesca e l'assassino, 2007, Bollati Boringhieri, 288 pp., € 22

Silvia Ronchey, L'enigma di Piero, 2006, BUR Rizzoli, 539 pp., € 12