Julian Schnabel al Museo Correr

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La dilatazione del tempo e dello spazio

"Permanently becoming and the architecture of seeing”, la permanenza del cambiamento e l’architettura del segno, è il titolo ben scelto per l'esposizione veneziana, aperta fino al 27 novembre nelle sale del Museo Correr, di Julian Schnabel. La mostra dedicata all'artista statunitense vuole essere un vero e proprio spunto di riflessione sulle variabili di tempo e spazio, due incognite che da sempre scandiscono la nostra vita.

Fig. 1L’intera esperienza dell’essere umano è un viaggio alla scoperta di luoghi, ecco quindi che l’individuo vive gli spazi, le aree che lo circondando, trasformandoli in luoghi per sé, dotandoli dapprima di una dimensione temporale fatta di presente, di ricordi, di memorie, di speranze, e successivamente di emozioni.

Julian Schnabel, come sottolinea Max Hollein (Economista e Storico dell’Arte, curatore di mostre, autore di saggi sull’arte contemporanea e moderna, tra cui il celebre “Arte Contemporanea e il boom del mercato dell’arte”), è uno di quegli artisti che considera fondamentale per la sua opera d’arte il contesto espositivo in cui essa andrà a collocarsi, comprendendo con estrema facilità la qualità emozionale contenuta negli spazi derivati dallo scontro - o si dovrebbe parlare più opportunamente di incontro - tra realtà apparentemente inconciliabili.
Il dialogo che, in occasione di questa mostra, si viene a creare tra l’immensità delle tele prodotte dall’artista statunitense e gli arredi sfarzosi presenti nello spazio espositivo del Museo Correr, diviene produttore di un’armonia quasi mistica, tanto sembra surreale l’accostamento di tali elementi (il contemporaneo con il passato), ed è una chiara conferma del processo creativo intrapreso dall’artista.

Il brusio caotico di Piazza San Marco, centro culturale di Venezia e simbolo della città stessa, sulla quale si affacciano le ampie finestre della sede museale, situata in parte nell’Ala Napoleonica ed in parte nelle Procuratie Nuove, si allontana dalle orecchie del visitatore che, nel silenzio delle sale, dagli alti soffitti decorati di gusto neoclassico, si trova costretto a prendersi (o sarebbe meglio dire riprendersi) il tempo, viaggiando all’interno di uno spazio che diventa improvvisamente sconosciuto, captando le emozioni fugaci che sono emanate dal matrimonio, autentico e reale, tra dipinto e luogo. Il non essere luogo di un’opera d’arte sembra, infatti, trasformarsi solo in rapporto allo spazio, uno spazio che non è sterile, ma intriso di storia e di ricordi che si sono fissati per sempre nel tempo: da un lato, infatti, avviene la modificazione dell’area che circonda il manufatto, dall’altro diventa parte integrante del luogo stesso. Lo spazio dato da noi per scontato, considerato come mero contenitore, viene non solo potenziato, ma tornando ad essere considerato interessante, amplifica l’emozione contenuta nel dipinto stesso, portando al confine del possibile i limiti della comprensione umana: i luoghi e i non luoghi, il detto e il non detto, il significante e il significato.

Segno e linguaggio sembrano essere alla base di tutta l’opera di Schnabel come riferimenti; come scrive David Moos nel suo saggio critico “Scena per Scena: riflessioni su dieci dipinti di Julian Schnabel dal 1976 ad oggi”, sembrano familiari, riconoscibili ma in realtà non risultano facilmente comprensibili, in quanto la loro rivelazione resta in un certo senso preclusa. Ecco, quindi, l’infinita storia di un gesto (the architecture of seeing), di una pennellata materica sulla tela, che cerca di imbrigliarsi nella parola, e che, non riuscendoci, lascia continue zone oscure, come le cose non dette che fanno parte del vissuto di ognuno di noi.

Per tale motivo, per apprezzare le opere di questo artista, è fondamentale prendersi tempo e spazio: l’opera deve essere guardata e riguardata, osservata, ammirata, scrutata, prima da vicino poi allontanandosi sempre più. A proposito dei dipinti di Schnabel, William Gaddis ha scritto che l’aspetto essenziale del lavoro di questo artista sembra essere il superamento del vedere l’arte come decorazione, intesa come una sorta di rifugio, di luogo sicuro, ritrovando l’abitudine semplice, e purtroppo dimenticata, di vedere realmente un dipinto.

È quindi questo vedere continuo a portare alla scoperta, e solo in quest’ottica è possibile apprezzare le opere di Julian Schnabel, facendo emergere o riemergere figure, oggetti, ricordi fuggevoli e ingannevoli dalla gigantesche superfici di tela o legno, in quello che potremmo definire un continuo cambiamento (permanently becoming).

Prendiamoci tempo, dunque, e spazio, nel salire l’arioso ed elegante scalone di marmo che dall’entrata ci conduce nella vasta Sala da Ballo nella quale ha inizio l’esposizione che, sviluppandosi su due livelli, ci offre una sequenza di trentanove lavori, eseguiti dal 1975 al 2010, in uno stimolante excursus sulla produzione dell’artista.

La prima, grande tela (cm. 294,6x416,6) che il visitatore si trova davanti è The Unexpected Death of Blinky Palermo in the Tropics (1981). L’olio, steso con pennellate materiche e corpose, sembra trattenuto dal supporto di velluto usato dall’artista; colori sgargianti emergono dallo sfondo bruno dando esito ad un continuo sfaldarsi e infrangersi di volti tramite pennellate che si trasformano in lineamenti umani, più o meno minacciosi in base al variare del nostro punto di vista nello spazio in un gioco di macchie colorate che cambiano significato e simbologia in base a chi le guarda, un teschio arancione, una semplice macchia o..? Occhi emergono dallo sfondo, e sembrano scrutare il visitatore impazienti: il non luogo del dipinto (il riferimento ai Tropici del titolo potrebbe essere in rapporto alle cromie sgargianti) vive nel luogo della sala di gusto napoleonico, il non detto del quadro emerge nelle pFig. 2arole che affollano la nostra testa mentre rimaniamo bloccati a osservare l’opera.

Sono tele immense nelle dimensioni quelle che ci si presentano davanti, che fanno sentire l’uomo microscopico e impotente di fronte a quei dipinti a tal punto astratti da ricordare, se osservati da vicino, quasi alcuni paesaggi atmosferici di Turner, come nel caso di Catherine Marie Ange (Cm 670,5 x 670,5), un olio su tela catramata del 1990: un’astrazione che sembra avere rapporti con l’astrazione lirica di Kandinsky, si pensi a opere come Dipinto con arco nero (1912) o Composizione (1916).

Un capitolo a parte sono i ritratti, ritratti che manifestano anche qui un cambiamento continuo delle tecniche artistiche, sperimentazioni, diari anch’essi di viaggi e di storie che si desiderano svelare solo in parte. Succede al meraviglioso Rula in a Blue Dress o Portrait of Rula, olio e resina su tela del 2010 (cm. 304 x 274, Fig. 1) in cui il blu del vestito della dama dallo spiccato accento spagnoleggiante, si riduce a delle pennellate di azzurro carico sparse su un abito chiaro dai riflessi rosati, ed ancora Untitled (Portait of Lily Brant), olio, resina, smalto su tela montata su cornice dipinta (1998), in cui il volto dell’anziana donna è coperto da una stesura piatta di color bianco vivo, così candido e pulito da contrapporsi al giallo dello sfondo e al vestito nero di pizzo indossato da Lily. In questo dipinto sembra emergere in maniera prepotente il non detto a cui abbiamo accennato in precedenza: proprio il fatto che il volto, la parte centrale in un ritratto, sia precluso al nostro sguardo, ci costringe a dare importanza a ciò che altrimenti sarebbe stato trascurato ovvero la postura, l’abbigliamento, la gestualità. Ecco, quindi, che quello che ci viene volutamente celato diventa per noi irrilevante per capire Lily: il celato che ci aiuta a capire il manifesto, un ritratto che non ritrae ma mostra l’essenza, l’aurea, quel qualcosa che altrimenti ci sarebbe impossibile vedere.

Al piano superiore sono esposte le opere più celebri dell’artista statunitense, i ritratti con i cocci, tra i quali Portrait of Olaz, olio su cocci montato su tavola (1993), Portrait of Anh in Mars Violet Room olio, cocci, epossidico su tavola (1988, Fig. 2) e Portrait of Carol olio e cocci montati su tavola (1987). L’olio si unisce con la tavola e con i pezzi di ceramica delle stoviglie che compongono il ritratto, lavori in cui i “combine paintings” di Rauschenberg dialogano con la produzione irriverente di Gaudì in un dare tridimensionalità all’arte, dare nuova vita ai nostri cocci, il passato che diventa noi, noi che siamo il passato, un passato fatto di oggetti, feticci di eventi vissuti e di tradizioni difficili da dimenticare, noi che siamo gli oggetti del nostro quotidiano, (le stoviglie), noi che siamo la summa di piccole parti. Le parti, parti minime, diverse, contraddittorie, si uniscono per formare un tutto, in cui le apparenti discromie, le alterazioni e gli apparenti disarmonie che emergono da un’approfondita analisi al microscFig. 3opio scompaiono, si annullano rendendoci unici, splendidi, identificabili. Il difetto, che visto da vicino sembra incolmabile, diventa amabile agli occhi di chi sa e vuole vedere, i difetti, o i presunti tali, sembrano amplificati nella visione ravvicinata, salvo divenire causa di fugaci emozioni se si osserva il tutto da lontano: la ricerca della giusta prospettiva, della giusta visuale. Le crepe tra i cocci, viste da vicino, sembrano profonde fratture, canyon insormontabili che frantumano l’identità, riducendo ogni individuo ritratto ad un insieme eterogeneo e sconnesso di parti. Ma queste dicotomie si riassorbono nella lontananza, compattando l’immagine e rendendola tridimensionale.

Schnabel, con questi suoi ritratti, sembra voler ricordare l’importanza del tempo, di come esso sia fondamentale per capire una persona, per poterla apprezzare, ed è qui la radicalità della poetica artistica dell’artista statunitense: per capirlo è necessario concedersi il tempo necessario, soggettivo e variabile secondo la sensibilità di ognuno di noi, il tempo per guardare, il tempo per capire, il tempo per gustare, il tempo per ricordare.

Il tempo cambia le cose e cambia anche l’architettura del segno, come dimostra questa mostra veneziana, che non vuole rappresentare l’evoluzione pittorica dell’artista ma il suo percepire. Le opere sono in realtà pagine di un diario, un taccuino di viaggio, come The Atlas Mountains, una sequenza di tre tele astratte di grandi dimensioni (cm. 396x275, Fig. 3), gesso e briglie su tela catramata, dai colori neutri e sabbiosi, in cui il sentire umano muta in rapporto ai luoghi in cui si trova, in cui il visitatore può prendersi il suo tempo per riflettere sull’arte e sulla vita in generale.


Didascalie delle immagini

Figura 1: Julian Schnabel, Portrait of Rula, 2010. Olio e resina su tela, cm. 304x274, Collection Rula Jebreal.
Figura 2: Julian Schnabel, Portrait of Anh in a Mars Violet Room, 1988. Olio, cocci (bondo) epossidico su tavola, cm. 182,5x152,5, Collezione Anh Duong.
Figura 3: Julian Schnabel, The Atlas Mountains II, 2008. Gesso, briglie su tela catramata, cm. 396x275, Collezione dell’artista, Courtesy Gagosian Gallery.


Scheda Tecnica

Julian Schnabel. Permanently Becoming and the Architecture of Seeing, dal 4 giugno al 27 novembre 2011, Museo Correr, San Marco 52, Venezia.
Orario: tutti i giorni dale 10.00 alle 19.00 (la biglietteria chiude alle 18.00).
Biglietti: intero € 10,00 ridotto € 8,00, ridotto speciale € 6,00
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