documenta 14 a Kassel

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Fig. 1 

Il Partenone di libri, replica schematica in scala 1:1 del tempio ateniese costruita con impalcature di tubolari, blocchi di cemento, e migliaia di veri libri soggetti a censura inseriti all’interno di colonne di plastica trasparente, opera dell’argentina Marta Minujìn (Fig. 1), è da giugno a settembre 2017 il simbolo della grande rassegna internazionale d’arte documenta 14 di Kassel. Il tema dei libri censurati e delle biblioteche, certamente non nuovo, ritorna anche in altre opere, ma il richiamo artistico qui è relativo alla Grecia, da cui il titolo-motto di documenta 14 , “Von Athen lernen” (Imparare da Atene).

L’esposizione di Kassel si tiene ogni 5 anni e rivaleggia con la biennale di Venezia per il titolo di “più importante rassegna d’arte al mondo”; l’attuale 14ma edizione, che ha avuto un lungo prequel ad Atene in primavera, è stata fortemente criticata sin dall’inizio, per molti motivi spesso completamente diversi e non sempre facili da capire.

Quasi inevitabilmente, ho fatto l’errore di dare un’occhiata alle recensioni già pubblicate e ho finito per arrivare a Kassel (la mia terza volta dal 2007) con alcuni pregiudizi, a causa dei quali ho dovuto faticare per ragionare e valutare senza contaminazioni. Di fatto, le critiche malevole più diffuse tra i critici d’arte possono ricondursi a tre punti: la mancanza di un filo logico; la non perfetta organizzazione degli spazi e delle infrastrutture; la presenza di troppi artisti greci. Dopo la mia visita, mi trovo d’accordo solo sul terzo punto, ma ne aggiungo uno del tutto mio, vale a dire l’eccesso di politicizzazione in alcune scelte che dovrebbero essere soltanto estetiche. Forse, la politicizzazione rappresentava il vero filo logico scelto dal curatore Adam Szymczyk, ma in questo caso a mio parere l’errore vale doppio.

Il fatto è che Szymczyk ha cominciato a lavorare a documenta nel 2013, e si ricorderà che a quel tempo la Grecia viveva i momenti peggiori della sua crisi economica, oggi per buona parte superata e comunque non più così eclatante. Scelto a sorpresa dallo staff amministrativo di Kassel, che poi lascia le mani libere al curatore, il polacco Adam Szymczyk ha probabilmente giocato e scommesso su un’eventuale uscita della Grecia dall’Europa, commettendo due errori clamorosi: il primo, adesso ovvio, che la Grecia è tuttora nell’euro e in Europa; il secondo, che Szymczyk addossava le colpe della crisi greca proprio alla Germania, una di quelle affermazioni del tutto infondate che continuano a girare negli ambiti regionalisti, o qualunquisti, o semplicemente in malafede, di tutta Europa. La posizione di Szymczyk tende quindi ad assegnare responsabilità eccessive all’amministrazione europea per la situazione attuale degli stati del Sud, dimenticando - facendo finta di dimenticare - che dopo la dittatura militare la Grecia è stata per decenni governata da oligarchie famigliari di stampo quasi mafioso (proprio come l’Italia dopo il fascismo è stata per decenni governata da alleanze quasi mafiose tra la Democrazia Cristiana e la malavita organizzata) e che tuttora paga le conseguenze strutturali di quei lunghi periodi. E a questo punto, oggi il motto “Von Athen lernen”, che sembrerebbe un invito a ritornare alla classicità perduta, assume una valenza del tutto enigmatica e comunque non aggiornata.

Verrebbe da dire “lasciamo stare la politica e guardiamo le opere”, ma documenta 14 è stata volutamente intrisa di politica, con troppi artisti di mediocre livello il cui unico merito è di essere greci, o anche siriani, libanesi, palestinesi, turchi, cambogiani, sudamericani, ecc. Questa posizione politica radicale, ormai invecchiata, quasi da ‘68, raggiunge il top quando si legge tra gli autori del catalogo (che non è un catalogo, ma una raccolta di saggi) il nome di Antonio Negri; come dire che il curatore polacco non ha saputo trovar di meglio in Italia che un anziano e abbastanza patetico teorico di una fantomatica rivoluzione comunista.  

E a proposito dell’Italia, ci sono artisti italiani a documenta 14? Soltanto tre, la coppia Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, con un’opera multimediale dedicata alla Russia, e la scomparsa Maria Lai, con alcune tele e tessuti. In pratica, l’Italia è giustamente assente, come nel 2007 quando non c’era proprio nessuno, ma a differenza del 2012, quando la curatrice Carolyn Christov-Bakargiev invitò numerosi italiani per diretta conoscenza, visto che lei stessa era ed è adottivamente e professionalmente quasi italiana. Ho scritto “giustamente assente” senza alcun sarcasmo, perché non credo di esagerare affermando che l’attuale situazione artistica italiana non è altro che deprimente.

* *

Ma veniamo alla mostra, cercando di non divagare oltre. Dopo e nonostante quanto detto, e dopo aver abbondantemente criticato la presenza di tanti artisti greci (che invadono in particolare la sede principale, lo splendido storico palazzo del langravio Federico detto il Fridericianum), documenta 14 propone comunque molti spunti di alto livello, opere interessanti e numerosi artisti, generalmente non troppo giovani, di indubitabile talento. Inoltre - notevolissimo merito di Szymczyk questa volta -, le sedi in cui la grande rassegna si svolge garantiscono location suggestive e ben diversificate: dai musei tradizionali come lo stesso Fridericianum e la Neue Galerie, da spazi ormai tradizionali come la Documenta Halle, ad altre sedi inventate, come gli immensi spazi del Palazzo delle Poste non più usati per il servizio ribattezzati Neue Neue Galerie, le sale vuote di una struttura semi-abbandonata e prossima alla demolizione come la Gottschalk-Halle, e infine i singolari padiglioni vetrati di un quartiere degradato, spazi destinati forse a caffè o a negozi ma non utilizzati. Così su un versante della rassegna le opere ci appaiono “normali”, appese alle pareti dei musei o comunque disposte in sale ben illuminate e pulite, mentre su un altro versante si inseriscono o si integrano in spazi originali ma logori, consumati da altre funzioni, e consegnano a quelli una seconda vita.

Fig. 24

Vale quindi la pena di soffermarsi rapidamente sulle sedi centrali, Fridericianum, Documenta Halle, Neue Galerie, Palais Bellevue, Ottoneum, e di seguire un percorso che privilegi gli spazi non tradizionali, che appariranno effettivamente, anche per effetto di confronto, molto più stimolanti e innovativi.

Dei primi, per fare una sintesi, si salvano alcune installazioni, mentre tra i quadri tradizionali ci sono soprattutto inutili riscoperte di cose vecchie, vicine ora all’espressionismo ora alla op-art, intrise spesso di un sapore esotico e naif che dovrebbe sembrare genuino ma che ormai appare soltanto politically correct; tra le opere di “scultura” ritorna infine quel sintomatico gusto per il riciclaggio di oggetti che ormai dovrebbe aver fatto il suo tempo.

Quindi, sono da ricordare a parer mio alcune operazioni molto articolate, come i vecchi banchi di scuola, i vari oggetti e le strisce disegnate appese al soffitto (Figg. 2 e 3) che la marocchina Pelagie Gbaguidi ha installato in un lungo corridoio della Neue Galerie dandogli il titolo di The Missing Link. E’ aggressiva ed efficace la proposta in pittura e in terracotta dell’indiano K. G. Subramanian, che con il ciclo Lesson of anatomy ci consegna immagini forti, tra cui un notevole rilievo plastico a metà tra antico e moderno (Fig. 4). C’è anche un personaggio drammatico tra gli artisti, il cileno Lorenzo Böttner, che si firma Lorenza, un giovane che ha perduto le braccia per un incidente e dipinge usando i piedi e la bocca, ma qui l’aspetto artistico è alterato dalla simpatia che proviamo per lui, che usa se stesso come modello. All’ingresso del primo piano della Neue Galerie (normalmente il museo di arte moderna di Kassel) si trova una imponente scaffalatura di libri, quasi una torre (Fig. 5), nella quale Maria Eichhorn, una ricercatrice tedesca, ha riunito libri di proprietà ebrea illegalmente acquisiti dalla Berliner Stadtbibliothek; insieme ad altra documentazione, veniamo a conoscere l’attività del Rose Valland Institute dedicata alla ricerca di oggetti tuttora illegalmente posseduti.

Fig. 2 Fig. 3 

Fig. 4 Fig. 5

A tre o quattrocento metri di distanza, i grandi spazi luminosi della Documenta Halle sono realmente sprecati, con l’eccezione forse dei resti di scialuppe modificati in casse armoniche dal messicano Guillermo Galindo, che li appende al soffitto e li trasforma in un simbolo delle tragedie marine dei migranti (Fig. 6), con il lungo titolo Fluchtzieleuropahavarieschallkoerper. Sono anche attaccati al soffitto Quipu Gut, enorme treccia di lana rossa della cilena Cecilia Vicuña (Fig. 7) e Fundi, tele color indaco del malense Aboubakar Fofana - che le espone insieme ai vasi delle piante (Fig. 8), a terra, da cui si estraggono i pigmenti azzurri -, mentre qui una parte del pavimento è coperta dal bellissimo legno levigato della Scène à l’italienne, opera a sorpresa dei francesi Vigier e Apertet (Fig. 9) che riproduce un palco teatrale. Ci può attrarre anche la lunga striscia disegnata e tessuta (Fig. 10) dalla svedese Britta Marakatt-Labba, che descrive storie del popolo Sami, ovvero dei làpponi, intrecciate con quelle dei loro animali, renne, volpi, cani. Altre opere nella Documenta Halle sono invece, come anticipato, decisamente deludenti.

Fig. 6
 Fig. 7 Fig. 8 

Fig. 9 

Fig. 10

Fig. 11

Si può dire lo stesso per l’Ottoneum, il museo della scienza, che ospita in poche sale alcuni oggetti ingombranti, anche se su una parete ci sono due vivaci acrilici del mongolo Nomin Bold (Fig. 11), ispirati dalla tradizione buddista del suo paese.

Usciamo allora dalla zona centrale “tradizionale” e andiamo nei nuovi spazi, raggiungibili a piedi o con i tram della città. Il grande Palazzo delle Poste di Kassel fu costruito negli anni ‘70, ma la progressiva diminuzione del traffico postale – dovuta al successo delle tecnologie digitali – ne ha reso inutile una buona parte che, in occasione di documenta, è stata messa a disposizione. Si tratta di un’area a pianterreno molto alta e scura, tipo un garage per camion, e di alcuni ampi spazi ai piani superiori. Nella sala inferiore ci sono opere più che notevoli, tra cui alcuni grandi quadri a parete, una serie dei quali si aggancia con metalliche strutture di lettura al centro, sgabelli e tavolini, creando una sorta di sala di attesa molto colorata e geometricamente elegante; The Reading Room è opera singolare di un artista 82enne di nazionalità pakistana, Rasheed Araeen (Figg. 12 e 13). Màret Anne Sara, una giovane norvegese, ci propone invece in due spazi separati una cortina di crani di renna e due fotografie del massacro di questi tipici animali del nord, lanciando un forte messaggio che accomuna la difesa della vita selvaggia con ambiente e tradizione (Figg. 14 e 15).

Fig. 12 Fig. 13

 Fig. 14 Fig. 15

 La grande sala ospita altro, tra cui proiezioni a parete, cicli fotografici, rilievi in ottone e le saponette nere disposte a formare bizzarre forme circolari del nigeriano Otobong Nkanga (Fig. 16), che insieme a una serie di sacchi ripieni di blocchetti di ferro dello statunitense Dan Peterman (Fig. 17) ritroveremo nelle vetrine su strada non lontano da qui. Come detto, la Neue Neue Galerie, ex-poste centrali, è forse la struttura più interessante di documenta 14, a partire dallo spazio stesso grande e suggestivo, tipico per opere non convenzionali, che devono trovargli un senso e dargli una forma insieme.

Al piano superiore c’è ancora una ampia sala, rivestita in parte da un tappeto rosa che si aggancia a una serie di note di pianoforte e a faretti disposti sui lati (sede occasionale di performance), opera della cipriota Maria Hassabi (Fig. 18), che precede un’altra sequenza di oggetti a parete, tra cui le belle fotografie in bianco e nero (Fig. 19) del tedesco Ulrich Wüst, con semplici architetture in paesaggi semi-vuoti (ispirate dalle celebri fotografie della coppia Bernd e Hilla Becher, veri capostipiti di uno stile che tuttora alimenta la fotografia d’avanguardia). Poco oltre c’è invece un qualcosa di abbastanza discutibile, vale a dire i filmati degli esercizi svolti da un uomo privo di una gamba (Fig. 20), forse destinati a farci riflettere, ma anche abbastanza sgradevoli nel loro eccesso di Realism - che è anche il titolo dell’opera.

Fig. 16 Fig. 17 Fig. 18 Fig. 19

Fig. 20

Bisognerebbe poi aprire un dibattito sulla presenza di filmati nelle mostre; quando sono numerosi e lunghi, nessuno può aspettarsi che il pubblico li veda tutti e per intero, ci vorrebbero ore. La mia posizione è di trascurarli o di seguirli per tre o quattro minuti al massimo, e non credo di essere l’unico visitatore a comportarmi in questo modo.

Non lontano dalle Poste si estendono quartieri residenziali del tutto banali per Kassel, come ce ne sono in mille città, ma al piano terra di una serie di case popolari sulla larga Kurt-Schumacher-Strasse ci sono ampi spazi vetrati, destinati a negozi, non in uso. Szymczyk vi ha visto una bella location per documenta e ha visto bene, come hanno visto bene gli artisti chiamati a riempire questi spazi. Due li conosciamo, Peterman con i blocchetti di ferro e Nkanga con le saponette nere, altri approfittano della vetrina per raccogliere oggetti disparati, mentre almeno due hanno idee abbastanza geniali: la libanese Mounira Al Solh ricostruisce la panetteria (Fig. 21) che aveva nel suo paese, dove ospitava profughi siriani, e espone rapidi ritratti dei suoi clienti nel sotterraneo; mentre l’argentina Vivian Suter inventa una camera da letto (Fig. 22) con tendoni coloratissimi a creare e suggerire spazi, quasi un’allegoria a rovescio della decorazione e dell’arredo.

Szymczyk ha scelto molte, forse troppe, sedi per la sua mostra, alcune destinate a opere singole, altre affollate, ma nel complesso non ha cambiato molto lo stile diffuso e già collaudato di documenta 13. Nella Friedrichsplatz non lontano dal nuovo Partenone c’è ad esempio un cumulo di tubi gialli di ceramica, nei quali sono inseriti materassi e cuscini da dormitorio, inventato dall’irakena Hiwa K per mescolare, si direbbe, le tipiche trovate dei bambini con il dramma dei rifugiati senza casa (Fig. 23). Vicino al Rathaus c’è anche una vecchia casa-torre rivestita per intero di sacchi, alla Burri (opera del ghanense Ibrahim Mahama, Fig. 24).

Fig. 21 
Fig. 22

 Fig. 23 

Fig. 24

E giungendo alla fine, per quanto mi riguarda, della lunga visita, risalendo la città verso Nord, c’è un edificio destinato alla demolizione, per via del vicino cantiere dell’Università di Kassel che ne è proprietaria e che si sta allargando notevolmente (con progetti architettonici di tutto rilievo). La struttura è la Gottschalk-Halle, su due piani, anche questa insolita come sede d’arte, visto il pessimo stato di pavimenti e pareti, ma suggestiva. Nel sotterraneo gli spagnoli Romero, Galvàn e De Elche (Fig. 25) hanno buttato qui e là oggetti collegati a truffe, cattiva finanza e altre bassezze legate al denaro, mentre al piano superiore ci sono video in proiezione su parete, un tendone per vedere altri video su schermi elettronici stando seduti su divani e sedie, e infine una trovata interessante, la Chess Society del camerunense Bili Bidjocka (Fig. 26), che mette una scacchiera a galleggiare su un velo d’acqua e ricrea un circolo scacchistico con tavolini arrangiati, scacchiere diverse e graffiti-fumetti alle pareti.

Fig. 25

 Fig. 26

Era quindi la mia terza volta a Kassel, e ne valeva come sempre la pena. Avevo letto, in forma di critica, che da qui non si capisce dove va l’arte di oggi, ma mi chiedo chi mai potrebbe saperlo, a partire dai critici che fanno osservazioni insensate come questa. Non si tratta infatti di capire dove va l’arte di oggi seguendo Szymczyk e documenta, ma di intuirne un verso sulla base di ciò che documenta propone senza spingerci a una sola risposta, ma offrendoci un ventaglio di soluzioni.

[cfr. le recensioni di documenta 13  e documenta 12 su FePdA]

 

Didascalie delle immagini

Fig. 1, Marta Minujìn, The Parthenon of Books. Materiali vari.

Fig. 2, Pélagie Gbaguidi, The Missing Link. Dicolonisation Education by Mrs Smiling Stone. Materiali vari.

Fig. 3, Pélagie Gbaguidi, The Missing Link. Dicolonisation Education by Mrs Smiling Stone. Materiali vari.

Fig. 4, K. G. Subramanian, Anatomy Lesson. Terracotta.

Fig. 5, Maria Eichhorn, Unlawfully acquired books from Jewish ownership by the Berliner Stadtbibliotek in 1943. Scaffalatura con libri.

Fig. 6, Guillermo Galindo, Fluchtzieleuropahavarieschallkoerper. Relitti di barche, corde metalliche e altro.

Fig. 7, Cecilia Vicuña, Quipu Gut. Lana colorata.

Fig. 8, Aboubakar Fofana, Fundi. Tessuti colorati e piante in vaso.

Fig. 9, Annie Vigier e Franck Apertet, Scène à l’italienne. Legno.

Fig. 10, Britta Marakatt-Labba, Historja. Ricamo, stampe , calcomanie e lana su tela di lino.

Fig. 11, Nomin Bold, Green Palace. Acrilico su tela.

Fig. 12, Rasheed Araeen, The Reading Room. Tavolini di acciaio e vetro, sgabelli di legno, e copie del giornale Third Text, con sette acrilici su tela.

Fig. 13, Rasheed Araeen, idem.

Fig. 14, Màret Anne Sara, Pile o’ Sàpmi. Sipario fatto di teschi di renna e fili metallici; collane di porcellane ottenuta da ceneri di ossa di renna; due fotografie.

Fig. 15, Màret Anne Sara, idem.

Fig. 16, Otobong Nkanga, Carved to flow. Sapone.

Fig. 17, Dan Peterman, Kassel Ingot Project. Lingotti di ferro.

Fig. 18, Maria Hassabi, Staging. Tappeto e suoni.

Fig. 19, Ulrich Wüst, Stadtbilder. Fotografie su gelatina d’argento.

Fig. 20, Artur Zmijewski, Realism. Sei video.

Fig. 21, Mounira Al Solh, Nassib’s Bakery. Materiali vari.

Fig. 22, Vivian Suter, Nisyros (Vivian’s bed). Oli su tela e altri materali.

Fig. 23, Hiwa K, When We Were Exhaling Images. Tubi di argilla e altri materiali.

Fig. 24, Ibrahim Mahama, Check Point Secondi Loco. Sacchi di tela e altri materiali.

Fig. 25, Romero, Galvàn e de Elche, La farsa monea. Vari materiali.

Fig. 26, Bili Bidjocka, The Chess Society. Materiali vari.

 

Scheda tecnica
documenta 14, Kassel, Germania. Aperta dal 10 giugno 2017 al 17 settembre 2017. Varie sedi, orario 10 - 20.
Biglietto giornaliero 22 euro, due giorni 38 euro, 100 euro tutta la stagione.