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Fogli e Parole d'Arte

Rivista d'arte on line, ha ricevuto il codice ISSN (International Standard Serial Number)

1973-2635
il 23 ottobre 2007.

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Spettacoli sulle scene e sugli schermi

Totò e Vicè, di Franco Scaldati

 


Soltanto un lunedì, al Teatro Argentina di Roma, dopo aver sostato per soli due giorni al Teatro Quarticciolo, è andato in scena un gioiello drammaturgico, agìto da due attori straordinari. Parlo di
Totò e Vicè di Franco Scaldati, un testo dove la parola è voce che attende di farsi carne nel corpo di attori capaci di non recitare, ma di essere e, allo stesso tempo, di non essere, anime in bilico tra vita e morte, tra realtà e sogno. Come tutti i grandi drammaturghi, Scaldati è anche un attore di rara intensità interpretativa e fortemente legato all'oralità del dialetto palermitano. Quando stese la prima versione di Totò e Vicè nel 1992, l'aveva pensata per se stesso e per Gaspare Cucinella, ma Enzo Vetrano e Stefano Randisi sono ormai diventati un tutt'uno con i suoi due personaggi evanescenti e surreali.

Discepoli di Leo De Berardinis, i due attori palermitani hanno lavorato da sempre alla ricerca delle radici della parola teatrale nei loro indimenticabili Pirandello, indagando il peso esistenziale del conflitto linguistico dal quale scaturisce la poesia del maestro di Girgenti. Consapevoli della verità contenuta nell'innesto del linguaggio poetico con il dialetto, Randisi e Vetrano sanno incarnare la parola teatrale senza mai limitarsi a dirla, tanto meno a recitarla. In più hanno il potere di smaterializzare i loro corpi in scena e di rendere visibile l'invisibile. Nessun'altra coppia di attori poteva meglio attraversare l'immaginario di Totò e Vicè e renderlo tangibile agli spettatori.

Difficile dire chi siano Totò e Vicé e l'indeterminatezza della loro identità, è forse uno dei nodi centrali della pièce. Sono senz'altro due emarginati (Scaldati trasse ispirazione da due barboni di periferia conosciuti negli anni Cinquanta), ma sono anche due Pupi teneri e innocenti, due "clown metafisici", che vagabondano tra il mondo dei vivi e quello dei morti.

Lo spazio scenico che abitano è occupato soltanto da una panchina ed è delimitato da una fila di candele che luccicano dentro semplici bicchieri di vetro. Sbucano fuori dalle quinte tenendosi per mano, intabarrati nei loro cappotti sdrucidi e trascinandosi appresso due vecchie valigie, mentre il rumore di fondo di un treno che passa, dà l'avvio al loro viaggio nella terra inesplorata della morte e in quella dell'immaginazione. A dispetto delle apparenze, hanno ben poco a che fare con i vagabondi beckettiani, e non soltanto per la loro disarmante semplicità e per l'affetto che li lega in modo indissolubile, ma soprattutto per la loro inarrestabile propensione alla creazione di immagini e alla ri-creazione di frammenti del passato. Sono i guardiani di un piccolo cimitero e fanno l'appello dei trapassati sotto una luna evocata dal gesto e dalla parola. Sollevano spesso lo sguardo verso il cielo e si interrogano sul mistero della vita e della morte con la semplicità e la meraviglia di un bambino. Raccontano sogni e rievocano tempi lontani, giocano con il paradosso e spesso scambiano l'inverosimile per il vero. Il dialogo è un'altalena di domande e risposte che si muove all'unisono con una musica dolcissima. In bilico tra epos e lirica, il controcanto di Totò e Vicè si articola su interrogativi strampalati e tragicamente comici, che sovvertono l'ordine delle cose terrene. Il racconto si nutre di frammenti tenuti insieme dalla musicalità delle parole e si dipana secondo il ritmo di una vecchia ballata scandita dal reciproco chiamarsi per nome che funge da collante e da refrain. Un chiamarsi che esprime il bisogno reciproco di accertare l'esistenza dell'altro. Come in Amleto, le domande prevalgono sulle affermazioni e indagano il mistero dell'essere, la transitività tra realtà e immaginazione, tra vita, o meglio, tra morte e sogno. " Il sogno è morte, oppure la morte è sogno?" si chiedono, senza darsi risposta. Quel che incanta è l'innocenza con la quale si pongono interrogativi, solo in apparenza, privi di senso. "Se una farfalla si sogna di essere un fiore, è un fiore o una farfalla?". " E che ne saccio io !" è il refrain di risposta a tutte le domande che si scambiano l'un l'altro. La profonda umanità delle due maschere è trasmessa in modo vivido dalla sapienza interpetativa di Randisi e Vetrano. che danno sostanza e ritmo alla sonorità della parola attraverso un'infinita varietà di timbri e di toni e una partitura mimica e gestuale che ipnotizza lo spettatore. I loro corpi agiscono per "mosse d'anima" e la parola è detta con lo stupore di chi nomina le cose per la prima volta, ma anche con la coscienza che questo fragile strumento umano ha il potere di creare e di riordinare il caos. " Se non ci chiamassimo Totò e Vicè, chi saremmo noi?".

Memorabile è il punto in cui Vicè decide di essere San Vincenzo, e con una corona di lampadine accese sulla testa, rievoca i poteri miracolosi di una povera donna che esaudiva i desideri di chiunque l'avvicinasse. I gridi di giubilo di una folla invisibile appena sussurrati e la coreografia gestuale di Vetrano, evocano la festosità pagana di una religiosità arcaica, con una forza espressiva che stimola l'immaginazione del pubblico. Sembra di esserci nei loro ricordi e persino nei loro sogni e nei loro giochi. E quando si dileguano nel buio dietro le quinte, ci si sente un po' soli. Anche perché i due compagni di viaggio sono un modello straordinario di complicità e di condivisione, l'uno lo specchio dell'altro, inseparabili e uniti a dispetto persino della morte. Vicè ritorna dal mondo dei morti per reincontrare Totò che, a sua volta, aveva tentato il suicidio per raggiungerlo. Il racconto delle beghe burocratiche di Vicè nell'aldilà sono amaramente comiche perché espimono il terrore della solitudine nel momento del trapasso. Una tragicità stemperata, tuttavia, dal calore del loro ritrovarsi non si sa dove.

Più che ad un semplice spettacolo, ci si trova difronte ad un raro esempio di teatro puro e assoluto, ad un'esperienza teatrale avvolgente e coinvolgente, che meriterebbe una maggiore attenzione non soltanto in Italia, ma anche oltre i nostri ristretti confini culturali e geografici.

 

Scheda tecnica
Totò e Vicè, di Franco Scaldati
Disegno luci : Maurizio Viani. Costumi : Mela Dell'Erba. Luci : Alessia Massai. Suono : Sara Bonaccorso. Interpretazione e regia di Enzo Vetrano e Stefano Randisi.
Visto al Teatro Argentina di Roma il 7 gennaio 2013.
In tournée.

 

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