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Fogli e Parole d'Arte

Rivista d'arte on line, ha ricevuto il codice ISSN (International Standard Serial Number)

1973-2635
il 23 ottobre 2007.

Fogli e Parole d'Arte è diretta da
Andrea Bonavoglia (Vitorchiano)
e distribuita on line dalla società Ergonet di Montefiascone (Vt).

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Spettacoli sulle scene e sugli schermi

Voce, energia, forma.

 

Nel 1985, a Milano, avevo recensito del Pontedera, con accesa approvazione, lo spettacolo ‘Zeitnot’, tratto dal ‘Settimo sigillo’ di Bergman, ed è dunque con buone aspettative ed entusiasmo che sono andato a vedere il loro ultimo spettacolo, ‘Tu! Ognuno è benvenuto.’ al Teatro Vascello (Roma 25-30 novembre 2014), il cui debutto risale ad ottobre 2013 (Pisa), e che sarà a Modena a febbraio 2015.

Lo spettacolo rielabora – attraverso la riscrittura di Stefano Geraci – l’episodio finale dell’incompiuto romanzo kafkiano ‘America’, ma direi, più in generale, atmosfere, stilemi ed ideologia del praghese, e forse non senza un occhio alla reinterpretazione del ‘Processo’ nell’omonimo film di Orson Welles. Del resto l’attenzione al cinema già era presente in ‘Zeitnot’, ispirato al film di Bergman.

Le note di regia – e dietro ad esse tutti o quasi i recensori – sottolineano l’intenzione dominante dell’operazione, che vorrebbe gettare luce indirettamente sulle condizioni del precariato globale nell’attuale condizione di globalizzato sadico vessatorio neocapitalismo rampante.

Solo Enrico Vulpiani, tra quelli che ho letto - pur accettando che l’architrave sia la ‘tragicommedia di ogni reclutamento’ - coglie quello che è a mio avviso invece il registro più interessante (quello veramente kafkiano ), cioè il lato metafisico esistenziale, che in sé ingoia e tritura, come ‘super cornice metafisica’, la metafora del reclutamento e del circo.

L’episodio del romanzo è l’ultimo di una serie di peregrinazioni picaresche di Karl, giovane sedicenne, alla ricerca di un lavoro, ma soprattutto alla ricerca di una identità e di una collocazione nel mondo. Il suo non è solo il dramma della manodopera immigrata, ma anche e soprattutto un surreale romanzo di formazione, oscillante tra chiusura kafkiana e ottimismo giovanile. Il giovane è un ‘deietto’, allontanato da genitori gelidi e anaffettivi, e poi dallo zio americano, sempre con futili pretesti, e ‘agito’ in maniera straniata da psicopompi dello strato popolare (persecutori) e del mondo femminile (incarnazioni progressive dell’angelo, e talvolta angeli degradati). Come sempre in Kafka, si intrecciano castrazione patriarcale, dimensione metafisica e dimensione sistemico sociale. Nell’ultimo episodio tuttavia Karl riesce a farsi assumere nel Circo Oklahoma, un circo ‘grande come il mondo’, e che accoglie tutti. La vita ?


Già qui comincia però la differenza con la rielaborazione drammaturgica di Geraci. In ‘America’ al circo si presentano in tanti, direi il mondo intero, e vengono assunti anche nuclei familiari con annesso neonato in carrozzina. Certo ci sono dei rituali burocratici assurdi di certificazione dell’identità, dei ruoli, dei sogni, ma tutti vengono accettati. Nella vita c’è posto per tutti ? E la pubblicità al circo è gestita da una tribù di angeli-femmina, che suonano la tromba. Tutto è corale.

Non così nel testo di Geraci. Solo il protagonista si presenta, con la sua valigia, e solo un angelo lo accoglie. Tutto è vuoto, solitudine, mestizia, spaesamento. Il circo è il ‘suo’ circo. La porta, che vedremo che ruolo ha in scena, la ‘sua’ porta. Nessun altro si presenta. Il circo kafkiano, che stranamente in ‘America’ sembra quasi un allegro vaudeville felliniano, con annesso pranzo luculliano, si trasforma qui in circo persecutorio. In macchina di tortura e straniamento, in metafisica del destino. Si slitta da ‘America’ al ‘Processo’; e si potrebbe slittare alle epifanie o alle rituali macchine della tortura kantoriane, se il linguaggio scenico ci provasse.

Il fatto che si presenti solo lui – e la presenza in scena del fantasma mobile (su rotelle) di una soglia aperta (di cui c’è solo il profilo dello stipite) – ci immette subito nel clima, più che di ‘America’, del ‘Processo’, con il famoso apologo del guardiano … “Questa porta era destinata a te soltanto, e ora la chiudo !”. Certo ! Le domande che gli rivolgono assomigliano agli stupidi ed alienanti test psicoattitudinali dell’industria moderna. Ma in mezzo alle domande ‘distrattore’, tipo “Le piace la montagna?”, i veri item bersaglio configurano un ‘processo’ sulla colpa edipica antipatriarcale: “Ha mai odiato i suoi genitori ?”, (ripetuto più volte); “Ha mai implorato di essere perdonato ?”; “Sogni ad occhi aperti ? Abitudini sessuali ?”.

E’ l’orwelliano-kafkiana intrusione annichilente e spersonalizzante nel privato, che mima lo stato di polizia o la metafisica ebraica della colpa. Si è ben al di là del politico cronachistico rilievo sullo sfruttamento senza dignità e diritti della forza lavoro para-schiavistica.

Il protagonista viene subito assunto, benché non sappia fare nulla, ma, mentre lo sottopongono ad una serie di frenetici rituali iniziatori, lo si vede chiaramente sempre più smarrito e prigioniero. Parla del padre con frustrata ammirazione ed invidia, mimandone la capacità di arrampicarsi (una delle poche ‘azioni fisiche’ che riescano ad immettere energia scenica e pathos vocale, secondo i vecchi canoni terzoteatristi), e rivolge sempre più domande senza risposta (“Ho sbagliato ? C’è una via d’uscita ?”) al muto angelo testimone, anch’esso a suo modo prigioniero, benché rassegnato, e suo pietoso assistente e lenitore. L’angelo gli fa capire che per lei la porta ormai è chiusa. Gli angeli non volano, e non vengono ascoltati (forse osservano, come gli angeli rilkiani, il privilegio degli uomini di vivere, e di scegliersi un destino ). Nessuno capisce il suo compito, e tutti vengono osservati, inermi e speranzosi… ”Ma la porta è sempre aperta per quelli come lui, ed è sempre la volta buona. “ - E’ lui che può indicare a lei la via d’uscita

Dunque la vita è il circo obbligato del destino, una prigione della quale solo noi possiamo aprire la porta ? - “Molti non trovano la via. Però lei è in ritardo. Spero che non accada più!” … Dunque, come già suggeriva Carotenuto, la colpa per kafka è l’incapacità di vivere il proprio destino ?

Ma veniamo alla forma scenica. Secondo un criterio formale terzoteatrista – un criterio ormai liso (ma un criterio vale l’altro, se fatto vivere) – viene rotta la quarta parete in più modi, ed il pubblico viene immesso nelle vicende sceniche. Già nel foyer ci dichiarano protagonisti, e gli imbonitori entrano gridando, “Si recluta per il Gran teatro … solo oggi !”, frase che poi segnerà anche, ciclicamente, la conclusione dello spettacolo, a marcare la recursività eterna del meccanismo dell’esistenza.

E poi …Due file di sedie accolgono una parte del pubblico in scena, una scena così a corridoio tra due ali di pubblico.
Si può dire con ciò rotta la quarta parete ? Direi che il pubblico rimane al di là.
La scena a corridoio si svolge su due poli, sempre secondo una sana tradizione terzoteatrista centrifugo dinamica.
La soglia mobile a destra, ed a sinistra, in successione, il carrello delle divisa da circo, il ‘trono della tortura’ (su rotelle), un carrello portavivande per ‘pasti forzati’ (
il protagonista non si può ‘anoressicamente’ tirar fuori né dal gioco né dal pasto della vita; deve partecipare ).
In mezzo le azioni, e scorrimenti talora ai due poli della soglia e del ‘trono’.

Ma come si svolgono le azioni ? E la scena è veramente dinamica ? Il testo di Geraci ha una sua intelligenza, ed un suo crescendo. E’ una operazione intelligente. E le azioni sceniche sono costellate di ‘singole buone trovate’. Ma è come se l’energia non scorresse, e tutto smorisse in una sorta di predicatorietà pedagogica. Il protagonista viene accolto e gestito con maniacale e gridato entusiasmo, e subdola e crescente vessazione, mentre attonito e remissivo prende lentamente coscienza. Lo vestono. Lo siedono su un trono a cui lo inchiodano. Lo nutrono forzatamente, con una gag che ricorda la nutrizione forzata di Chaplin in ‘Tempi moderni’.

Puleo, Targioni, Torrini danzano intorno alla vittima con sfavillante entusiasmo maniacale. Ma le loro azioni fisiche sono goffe e meccaniche, staccate, sopra le righe, così come il registro vocale, privo di reale ricerca espressiva e sfumature.

Più interessante il versante àtono della recitazione, assegnato all’angelo testimone, che però forse troppo gioca sull’immobilità (bello scenicamente, ma sul piano registico-visivo, il momento in cui, dietro una parete velo, nerastra, l’angelo diventa figura di sogno, suonando tenere musiche a corda ). Il tono di Silvia Pasello è sommesso, mentale, rassegnato. Ma anche qui voce e corpo troppo restano statici, senza variazioni e lievitazioni.

Il centro dello spettacolo dunque - l’unico che veramente a tratti immette energia e creatività recitativi, e con azioni che generano un congruo trampolino di lancio nel gestuale, posturale, e nell’uso degli oggetti - è il protagonista, il rumeno Sebastian Barbalan.

La sua valigia e la soglia mobile diventano gli oggetti attorno a cui ruota, si aggrega, si accascia, il suo corpo-esistenza.

Trascina la valigia, vi si accoccola e la apre per suonare una fisarmonica al suo interno; canta nenie e lamenti in rumeno; si arrampica disperato alla soglia, con effetti di rimbalzo della fatica corporea sull’uso della voce. Sì. Usa bene i criteri del teatro fisico, dove la voce nasce dai vissuti e dalle azioni corporee. Lui sarebbe il giusto e magmatico filo di continuità dell’energia scenica, se questa non fosse continuamente interrotta dai tempi morti o stonati degli altri. Tutto si spezza in tableau giustapposti, a cui fa da cerniera simbolica la musica di Tavolazzi, ora euforica e circense, ora sul registro delle minacciose e ululanti sirene di un incombente aldilà destinale, fabbrica o coprifuoco che sia.

E come Barbalan non varcherà mai la soglia che pure lo provoca, tormenta, e segue in scena, così la scena non varca mai la soglia di un buone progetto, rimasto al collage di idee e tecniche.

Il gruppo Pontedera dunque, ora ‘fondazione’, se conserva la memoria delle sue radici nel linguaggio del ‘Living’ e di Grotowski, forse si sta trasformando in ‘accademia’ ? I canoni sono rimasti gli stessi, ma hanno perso lo slancio vitale, parrebbe. E come molta ex avanguardia, accanto ad un montaggio e a stilemi invecchiati, manca una ricerca su una nuova poetica, ma soprattutto – difetto generalizzato a molto teatro attuale – una ricerca sull’uso della voce.

 

 

 

Scheda tecnica

Tu ! Ognuno è benvenuto.’, della Fondazione Pontedera Teatro. Liberamente ispirato ad ‘America o il disperso’, di Franz Kafka. Drammaturgia Stefano Geraci, Roberto Bacci. Regia Roberto Bacci. Interpreti: Silvia Pasello, Sebastian Barbalan, Francesco Puleo, Alessio Targioni, Tazio Torrini.
Musiche Ares Tavolazzi. Costumi e collaborazione artistica Luisa Pasello. Direzione tecnica Sergio Zagaglia. Allestimento e luci Stefano Franzoni. Produzione Angela Colucci, Eleonora Fiori, Manuela Pennini. Ufficio stampa Micle Contorno, le Staffette Raffaella Ilari, Marialuisa Giordano. Assistente alla regia Elena Piscitilli.

In cartellone

Modena, 27 febbraio – 1 marzo 2015

Per informazioni e prenotazione biglietti

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