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Fogli e Parole d'Arte

Rivista d'arte on line, ha ricevuto il codice ISSN (International Standard Serial Number)

1973-2635
il 23 ottobre 2007.

Fogli e Parole d'Arte è diretta da
Andrea Bonavoglia (Vitorchiano)
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Spettacoli sulle scene e sugli schermi

L’ultimo nastro di Krapp, diretto e interpretato da Bob Wilson

Un’agghiacciante simmetria dell’anima

Era dal tempo di Hamlet: a monologue che il grande regista statunitense Robert Wilson non compariva in scena come attore ed ora, a distanza di più di un decennio, la sua magistrale interpretazione del Krapp beckettiano oltre a confermare la sua maestria registica, lo scopre all’apice della sua maturità attoriale. Wilson aveva in mente da tempo la messinscena di una qualche opera di Beckett, autore per molti versi affine al suo modo di intendere il teatro e non credo sia un caso che si sia confrontato con l’esile atto unico che tutto si incentra sulla tematica del Tempo e della persistenza della memoria.

Quando dirigo- afferma Wilson- io creo una struttura nel tempo”. Per lui lo spazio scenico è la premessa strutturale alla rappresentazione e deve essere predisposto con rigore estremo per lasciare maggiore libertà a chi vi muove all’interno. Lo spazio e le coordinate temporali sono già nella partitura testuale de L’ultimo nastro di Krapp che con le sue didascalie cavillose, con i suoi continui riferimenti al tempo interiore e a quello esterno, ha permesso a Wilson di inscenare l’irrappresentabile,ovvero la simultaneità di passato, presente e futuro, nella mente del giovane/vecchio Krapp. Attraverso la reiterazione Wilson ha espanso notevolmente il tempo della rappresentazione rispetto all’esiguità testuale, restituendo al dramma tutta la sua complessa significazione, ma reinterpretandolo a modo proprio allo stesso tempo.

Neanche una sillaba è stata rimossa o aggiunta al monologo-dialogo di Krapp con la sua voce registrata, ma non è certo per questo che la rappresentazione sia così tanto fedele al testo. Lo è perché ha saputo insinuarsi in ogni recesso delle parole pronunciate, ripetute e riascoltate da Krapp, rendendo visibile e percepibile il suo conflitto tra volontà di tenere a bada la memoria involontaria e l’impossibilità di sfuggire alle spinte dell’inconscio. Ma quel che più emerge dalla massima stilizzazione visiva è la impossibilità di Krapp di formulare quella visione, nel senso di epifania joysiana, che funga da auto-rivelazione salvifica. Il Krapp della fine è lo stesso dell’inizio perché non c’è futuro senza coscienza o chiara consapevolezza del sé.

La scena è una traduzione visiva della ricerca di senso che Krapp attiva nel chiuso della sua tana. Il fondale è occupato da una sorta di archivio della memoria, un’immensa grata che rimanda all’idea di un bunker. Sul davanti è protesa la scrivania con sopra un vecchio magnetofono e alcune bobine disposte in ordine maniacale. Sulle pareti laterali, alcune mensole di metallo sopportano il peso di pile di documenti che raccontano l’agghiacciante simmetria di un ordine mentale. La stanza è immersa in un’oscurità squarciata da lampi intermittenti di luce siderale che stigmatizza il continuo oscillare di Krapp tra momenti di chiaroveggenza (luce) e momenti di oblio o di afasia (buio). L’uomo si accinge a festeggiare il suo settantesimo genetliaco in compagnia della sua voce registrata in occasione del suo trentanovesimo compleanno. I movimenti minuziosamente reiterati e rallentati nella buona mezz’ora in cui Wilson/Krapp si prepara all’ascolto senza proferir parola, evidenziano la ritualità ossessiva del cerimoniale.

Wilson, anche lui sulla settantina, indossa pantaloni e gilè scuri che esaltano le sue rotondità e un paio di calzini rossi che alludono ad una vanità senile. Il volto impastato di biacca ricorda la maschera degli attori Kabuki e anche i gesti essenziali e misurati sembrano mutuati dalla tradizione “ Aragoto” e poi reinterpretati in modo anche ironico (si pensi ai goffi passi di danza appena accennati o alle piroette che volutamente accentuano l’inclemenza del Tempo che passa). In questo modo Wilson è se stesso, Krapp e Ognuno al contempo. Un rumore violento di scrosci di pioggia e di tuoni fa da contrappunto a ciò che accade all’interno. Il minimo rumore prodotto da gesti o da oggetti viene amplificato e il silenzio o l’insignificanza della parola vengono stigmatizzati nei movimenti labiali che non producono suono. Sono le cose (la bottiglia, le bobine, la banana), che aiutano a passare la giornata o darle significato, come lo sono la sporta e il rossetto di Winnie in Giorni felici. Il linguaggio è più inaffidabile e Krapp consulta invano il dizionario per capire il significato della “vedovanza” della madre.

Mai come in questa versione, la scissione del personaggio è stata evidenziata, mai il monologo è stato smembrato in dialogo tra il sé dell’oggi e quello del passato. Questo anche grazie alla estrema pulizia formale e alla agilità ritmica e tonale di Wilson. Nel testo Krapp manda avanti e indietro il nastro sette volte, soffermandosi ora sull’immagine della morte della madre, ora sul suo fallimento come scrittore (“ Diciassette copie vendute, di cui undici con lo sconto speciale a biblioteche circolanti nei territori oltremare”),e soprattutto, sul ricordo di quell’ ultimo incontro con la donna che forse avrebbe potuto modificare in senso positivo il corso della sua esistenza (“ Stavamo là, sdraiati senza muovere. Ma sotto di noi tutto si muoveva e ci muoveva, dolcemente, su e giù, da un lato all’altro”). Ma i blocchi di monologo interiore vengono reiterati più volte, ogni parola o frase ben scandite come se la voce le scolpisse nell’oscurità, con l’effetto di dilatare il momento passato in un perenne “ora”. E allo stesso modo, balzano all’attenzione quelle esitazioni della voce quando Krapp non riesce a portare a compimento le frasi che alludono a quella “ visione “ che dovrebbe far luce sul suo io più segreto: “ mi è apparso finalmente chiaro che l’oscurità che ho sempre lottato per tener lontana è in realtà la mia più….(Krapp impreca, stacca, fa correre il nastro, rimette in moto).

Krapp si registra e si riascolta per riempire il vuoto e per tenersi compagnia ma, in questa versione, soprattutto per capirsi e darsi un senso che non riesce né a trovare o ad esprimere in modo compiuto. Non c’è pathos né disperazione in una rappresentazione tanto formalizzata da risultare straniante, ma non per questo meno coinvolgente. L’immagine finale che viene ingoiata d’improvviso dal buio, più che trasmettere l’angoscia dell’approssimarsi della morte, fissa indelebilmente nel ricordo l’eterno purgatorio della condizione umana. Si rimane senza fiato e si esce dal teatro colpiti, spiazzati, appagati. Un grazie a Wilson, un grazie all’Eti soppresso, che ha permesso questa esperienza teatrale.

Scheda tecnica

L’ultimo nastro di Krapp, di Samuel Beckett. Scena e ideazione luci: Robert Wilson.
Costumi e collaborazione alla scenografia: Yashi Tabassomi. Disegno luci: A. J. Weissbard. Con Robert Wilson. Regia: Robert Wilson.

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