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Fogli e Parole d'Arte

Rivista d'arte on line, ha ricevuto il codice ISSN (International Standard Serial Number)

1973-2635
il 23 ottobre 2007.

Fogli e Parole d'Arte è diretta da
Andrea Bonavoglia (Vitorchiano)
e distribuita on line dalla società Ergonet di Montefiascone (Vt).

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Spettacoli sulle scene e sugli schermi

Natura morta con isteria

 

Ci si potrebbe chiedere se l’accoppiamento del ‘Gabbiano’ di Cechov con la pluripremiata ‘Trilogia dell’attesa’, proposti in sequenza al Vascello di Roma (gennaio 2015), abbia nella mente della Compagnia un suo perché.

La tematica del ‘Gabbiano’ di Cechov è l’attesa? E se così, è l’attesa che s’accompagna alla speranza, o è l’attesa beckettiana che certifica la disattesa speranza nella certificazione farsesca della disperazione? Più d’un critico ha rilevato la parentela che lega il ‘Gabbiano’ alla figura di Amleto, sia per la questione edipica, sia per la centralità del ‘teatro nel teatro’ come effetto detonatore.
Ed in entrambi i casi la disperazione si fa farsesca nella precognizione del fallimento predestinato di ogni capovolgimento della situazione. Il fallimento è strutturale, perché l’Edipo frena ogni orizzonte di felicità. Non è dunque un caso che entrambe le opere finiscano con un suicidio, casuale (in Amleto) o volontario che sia.

In Cechov tuttavia Amleto si attualizza e scorona in un universo di disfacimento aristocratico borghese di marca decadente, dove la corona è la illusoria corona dell’arte, e la vita un generale ed equivoco non vivere, tematizzato a diversi livelli in tutti i personaggi. Così Trigorin, l’artista di successo amato dalla madre di Kostia (Irina) e dalla giovane aspirante attrice, Nina, insegue la vita impossibile nell’amor giovane, sentendo il vuoto dell’arte. Ed il suo vuoto diventa l’idolo vuoto della contesa tra madre figlio e Nina, rivale della madre e amore di Kostia. E l’arte non nel suo perché, ma come idolo di felicità-successo, diventa l’altro idolo tragico che muove tutti: la madre, artista tradizionale al tramonto; il figlio, frustrato avanguardista astratto, oggetto della ludica sconferma materna; Nina, che oscilla tra l’idealizzazione del successo in scena e dello scrittore di fama.

E l’amore, quello vero, muore tra le pieghe della vanità.

Tutto è agito come in un vaudeville dell’aldilà, come un agito pietrificato dallo sguardo di un oltre dove tutto è già scritto, e gli attanti del destino marionette isteriche.

Questa potrebbe esser la chiave di lettura della messinscena e della concertazione recitativa della Iacozzilli (la regista), che articola i quattro atti cechoviani in due tempi scenici, che amerei titolare ‘la danza isterica’ e ‘natura morta tragica’. Vediamo dunque di articolare ora la descrizione degli aspetti scenici e recitativi. Innanzitutto va detto che, sul piano del colore, ed implicitamente del suo simbolismo, in entrambi i tempi la scena si articola sul contrasto tra il nero ed il bianco.

Il bianco della speranza isterica e frivola, del sogno (il gabbiano) e dell’innocenza. Bianchi infatti sono tutti gli oggetti in scena, e bianco vestiti gli attori.

Il nero come secondo piano gestalticamente avvolgente (la morte, la coscienza, il silenzio) che, sottotono nel primo tempo, si rivela nella sua nuda potenza nel secondo tempo, facendosi in esso la zona delle quinte nudo fondale, con annullamento della profondità realistica.

La prima scena infatti è articolata in profondità su due piani. Davanti - durante la messinscena (invisibile, solo voce fuori campo) della pièce del figlio - campeggia una frivola teoria di sedie bianche, al cui centro, differenziato dall’alto schienale a coda di pavone, campeggia il ‘trono’ in vimini della frivola Irina (Francesca Farcomeni).

Sullo sfondo, a vista, il magazzino di scena, articolato su due piano, e ingombro di ogni tipo di oggetti. Da lì ci guardano all’inizio, in fila gli attori, e lì si ritirano, quando la scena si riduce a duetti e terzetti attoriali, gli altri. Zona di un muto sguardo che osserva, si incarna, giudica. Sono i testimoni della farsa ? La regione della disperata coscienza ?

Comunque sia falsificano la realtà della scena, e quindi della vita, che si dipanerà con toni isterici e marionettistici per tutto il primo tempo.

La scelta recitativa infatti - nel suo registro vocale e gestuale tradizionale – privilegia un concitato chiacchiericcio da party all’americana, e nei contrasti psicologici un estremismo da filmografia psicanalitica americana, compresa una Nina ridotta a fremente adolescente in hot pants. Enfasi, gridati, trilli, che talora lasciano perplessi, e non rendono giustizia ad un apparato scenico il cui sdoppiamento tragico avrebbe potuto essere più evidenziato da forme recitative più straniate e derealizzate. Ciononostante, pur all’interno di questo registro, talora la maestria attoriale riprende corpo, come in certi toni accorati di Kostia (complice la strascicata pronuncia straniera del danese Stender), o nei vertiginosi e forse un po’ troppo accelerati cambi di sentimento nelle interazioni disperate tra Irina (una squillante e frivola Farcomeni, che sa però scendere anche a toni disperati ) e Trigorin (un Paolo Zuccari che riesce al suo meglio nei toni dello smarrimento).

Una scelta di lettura registica ipotizziamo, questa frenesia isterica, ma che certo ogni tanto disturba per la violenza allo sfumato cechoviano, sacrificandone quella lentezza ed introversione che così bene seppe rendere Bellocchio nel film omonimo. Una lentezza dolente che solo in Mascia (la convincente Elisa Bongiovanni) ritrova un po’ un accasamento, anche se rimane una nota stridente, fuori contesto.

Tuttavia si può anche ipotizzare che la scelta non sia infelice se si guarda al secondo tempo. Questo infatti risalta per contrasto.

Nel nero totale e nel vuoto le poche presenze si aggirano come ombre di un dramma consumato, attorno ad una lungo tavolo bianco, fantasmatico. Qui Kostia incontrerà una Nina ormai reduce dall’amore fallito per le scene e per Trigorin (che la ha usata e lasciata), ed incapace di rispondere alcunché al suo disperato ultimo appello d’amore. Si svolgerà così una simbolica ‘ultima cena’ dove la cristica vittima designata - origliando come un fantasma il chiacchiericcio superficiale e denigratorio della madre nei suoi confronti, certificato il triplo fallimento, dell’arte e dei suoi due amori - si avvierà al suicidio in scena.

E la tavolata, ormai deserta, la scena abbandonata del mondo, si trasformerà in una fantasmagorica natura morta, di un bianco livido, campeggiando gigante sul desco il gabbiano morto, simbolo di tutti i voli abortiti, e profeticamente ucciso da Kostia nel primo atto.

Insomma, concludendo, un tentativo di lettura in bilico tra innovazione e tradizione, la cui riuscita ha luci ed ombre, ma comunque una sua dignità.

 

Scheda tecnica

IL GABBIANO, di Anton Cechov, regia Fabiana Iacozzilli. La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello. Con Simone Barraco – l’amministratore Samraev, Luigi Di Pietro – il dottore, Francesca Farcomeni – Irina Nikolaevna, madre di Kostia, Anna Mallamaci – Nina, Benjamin Stender – Kostantin Gavrilovic Treplev, figlio di Irina, Paolo Zuccari – Boris Alekseevic Trigorin, Elisa Bongiovanni - Masha. Collaborazione artistica Matteo Latino, regista assistente Marta Meneghetti, aiuto regia Giada Parlanti, assistente alla regia Gabriele Paupini, scene Matteo Zenardi, disegno luci Hossein Taheri, costumi Gianmaria Sposito. 

 

 

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