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Fogli e Parole d'Arte

Rivista d'arte on line, ha ricevuto il codice ISSN (International Standard Serial Number)

1973-2635
il 23 ottobre 2007.

Fogli e Parole d'Arte è diretta da
Andrea Bonavoglia (Vitorchiano)
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Spettacoli sulle scene e sugli schermi

Il padre, di Fatih Akin

 

 

Il padre (The Cut)

Regia: Fatih Akin

 

 

 

 

Cast: Tahar Rahim, Simon Abkarian, Makram J. Khoury, Hindi Zahra, Bartu Küçükçağlayan, Zein e Dina Fakhoury, Kevork Malikyan, Trine Dyrholm, Akin Gazi, Shubham Saraf, Gorge Georgiou

Distribuzione: BIM

 

Capita talvolta che, a fini didattici, mi venga richiesta una filmografia sull'olocausto armeno, domanda che mi provoca un certo imbarazzo data la scarsezza di pellicole sull'argomento. In realtà, non mi risulta complicato citare - senza avventurarmi nel cinema muto - Mayrig, e il seguito Quella strada chiamata paradiso, due bei film dei primi anni Novanta di Henri Verneuil, con Omar Sharif e Claudia Cardinale, ma ugualmente poco conosciuti in Italia. Poi passo a ricordare Ararat(2002) di Atom Egoyan, con Charles Aznavour, e infine, La masseria delle allodole (2007), di Paolo e Vittorio Taviani, lungometraggio tratto dall'omonimo romanzo autobiografico (ediz. BUR Rizzoli), che continuo accoratamente a raccomandare, di Antonia Arslan, autrice pure del successivo La strada di Smirne. Esistono, inoltre, alcuni interessanti documentari realizzati da cineasti di origine armena, italiani e francesi, ma ritengo si possa approfondire autonomamente la ricerca sul portale http://www.comunitaarmena.it/.

Di sicuro avrei provato minor imbarazzo nel menzionare una bibliografia che annoverasse saggi storici importanti, molti dei quali tradotti anche in lingua italiana, e struggenti autobiografie che, come quella della citata Arslan, continuano a destare l'interesse dei pur pigri lettori di casa nostra; ma le ragioni di spazio mi inducono nuovamente a rimandare alle librerie e ai siti specializzati. In attesa che si manifesti un'opera cinematografica "paradigmatica" sulla questione armena, eccoci a parlare de Il padre (The Cut), presentato all'ultimo Festival di Venezia non senza risonanza mediatica, del pregiato regista turco Fatih Akin (nato ad Amburgo e residente in Germania), noto per La sposa turca, Ai confini del paradiso e Soul Kitchen.

Un punto di vista oltremodo intrigante, quello di Akin, proprio perché proviene da un intellettuale, il cui paese d'origine nega con forza di riconoscersi come il primo responsabile della morte dei due o tre milioni di Armeni trucidati in varie ondate (1894-1896), nel corso del primo conflitto mondiale (1915-1916), e fino ancora al 1922, nonché della diaspora provocata da quella che oggi definiremmo una spietata operazione di "pulizia etnica". La popolazione armena, otto milioni circa di persone che occupavano l'est della penisola, di antica religione cristiana, ricchi imprenditori e intraprendenti professionisti, artigiani e mercanti, potenziali alleati dei nemici russi, costituiva di per se un capro espiatorio ideale, anche alla luce della scomoda presenza curda nelle adiacenze di quei territori.

La vicenda narrata in The Cut (dal prossimo 9 aprile in uscita sugli schermi italiani) prende avvio proprio nel 1915 a Mardin, cittadina del sud-est anatolico non distante dal confine siriano. La guerra in corso sta accelerando la dissoluzione dell'Impero Ottomano, alleato di Germania e Austria, ma già minato al suo interno dalla rapida crescita del movimento dei Giovani Turchi, i quali puntano alla rapida "modernizzazione" del paese e all'omologazione razziale e religiosa. La polizia turca rastrella i giovani armeni per destinarli al fronte, o nei lavori forzati; in realtà si tratta di un vero e proprio internamento, cui non è estraneo l'intervento di militari tedeschi esperti nella progettazione dello sterminio di massa. Tra i deportati c'è anche il fabbro Nazaret Manoogian, (nomen omen) che viene così separato dalla sua famiglia. L'uomo (l'attore francese Tahar Rahim) riesce fortunosamente a sopravvivere, ma ferito alla gola perde l'uso della parola.

La sua famiglia, insieme a tutta la cittadinanza di Mardin, viene costretta alla cosiddetta "marcia della morte" nel deserto siriano, capitolo decisivo del genocidio degli Armeni, durante il quale la fame e le malattie, le fatiche fisiche e l'esposizione alle impervie condizioni climatiche, le brutali violenze e le esecuzioni sommarie, in parte "appaltate" agli inferociti curdi delle zone limitrofe, assetati di sangue e di bottino, causeranno il massacro della maggior parte dei deportati. Unica via di salvezza: l'islamizzazione forzata. Nazaret, rifugiatosi ad Aleppo, in Siria, scopre che le sue due figlie gemelle sono ancora in vita; inizia perciò la sua complicata ricerca attraverso gli orfanotrofi della Mesopotamia e del Medio Oriente, ritrovando le loro tracce in Libano, e da lì, grazie al supporto delle comunità armene locali, a Cuba e negli USA, e rischiando più volte la propria vita, a Minneapolis e in Nord Dakota...

Il "taglio" del titolo originale non si riferisce soltanto alla menomazione fisica che procurerà al protagonista il mutismo di buona parte del film, bensì rappresenta la rescissione dalle proprie radici familiari, culturali e religiose. La perdita della parola può essere intesa come il rifiuto della stessa a causa della violenza sparsa a piene mani nel corso del racconto (si dia una scorsa a Il male di vivere di Montale e Alle fronde dei salici di Quasimodo) al punto da far risultare ridondante la similitudine costituita dall'intermezzo chapliniano de Il monello. Chiara, dunque, l'intenzione dell'autore di denunciare il "male" che si annida in ogni essere umano, anche se affermare che "il male è ovunque" è un modo di defilarsi, di evitare di assumere una posizione netta e coerente rispetto al genocidio in oggetto. Ecco perché ritengo stucchevole anche la scena del ferimento di un bambino durante la sequenza dell'abbandono di Aleppo da parte dei turchi, presi a male parole, sputi e sassate dai superstiti armeni.

Infatti, da quel momento in poi il film si trasforma in qualcos'altro: l'epica dell'olocausto e la tragedia di un intero popolo cede il passo all'avventura di un uomo qualunque, alla ricerca dentro e fuori di se di una nuova identità. E a poco a poco Il padre assume i contorni di un drammatico road movie; e con l'arrivo negli USA, adotta addirittura i canoni del western, con tanto di sparatorie e fughe sui treni. Tale discontinuità di genere si ripercuote pure sulla qualità complessiva dell'opera, dal respiro ampio, ma dominata da un meccanicismo assolutamente prevedibile. La prima parte, sebbene piuttosto didascalica, è quella più riuscita, anche se il progressivo isolamento vocale di Nazaret non giova alla performance di Tahar Rahim, già ammirato protagonista de Il profeta, il teso "romanzo criminale" di qualche anno fa, diretto da Jacques Audiard.

Con The Cut Fatih Akin conclude la trilogia su “l'amore, la morte e il diavolo”, iniziata con La sposa turca e proseguita con Ai confini del paradiso, mostrando di cavarsela discretamente sia nella gestione del cast - assortito ed efficace - che dei 138 minuti di un kolossal che si snoda, nel rispetto dei canoni visivi tradizionali, attraverso svariati e grandiosi paesaggi, collegando due continenti così lontani e diversi. Purtroppo lo stile del regista turco tende ad annullarsi a beneficio dell'intreccio, e il finale di speranza non può bastare a riscattare la trattazione di un evento storico così complesso e rilevante. Qualche anno più tardi questo efferato genocidio di cristiani avrebbe dato la stura alla follia criminale di Hitler, che al cospetto dei suoi luogotenenti, poco persuasi della "soluzione finale" della questione ebraica, avrebbe esclamato: "Qualcuno al mondo si è accorto dello sterminio degli Armeni?". 

 

 

 

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