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Fogli e Parole d'Arte

Rivista d'arte on line, ha ricevuto il codice ISSN (International Standard Serial Number)

1973-2635
il 23 ottobre 2007.

Fogli e Parole d'Arte è diretta da
Andrea Bonavoglia (Vitorchiano)
e distribuita on line dalla società Ergonet di Montefiascone (Vt).

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Testuali parole

Dissolvenze, ossessioni, gorghi latenti

Un piccolo recinto in un grande cimitero. Tardo autunno. E’ piovuto da poco. Alberi neri, qualche foglia ancora sui rami, qualche foglia sparsa a terra. Un vialetto di ghiaia. Una panchina dalla vernice scrostata. Un uomo arriva sul vialetto, esce dal vialetto, si avvicina a una lapide… […] “ – E’ la prima parte della lunga didascalia con cui si apre la pièce di Jon Fosse, ‘Sogno d’autunno’ (vedi Jon Fosse, ‘Teatro’ – ‘Editoria & spettacolo, 2006), di recente andata in scena a Roma (12-23 aprile 2011, Teatro vascello) ad opera dello ‘Zerkalo Teatro’, per la regia di Alessandro Machia.

E’ l’inizio più simbolicamente calzante che potesse avere un’opera fossiana, il cui teatro - mirabilmente in bilico tra un realismo minimalista, lo strazio bergmaniano, ed il fantasma beckettiano-ioneschiano di un assurdo metafisico quotidiano, tra circolarità tragica e grottesca alienante insussistenza – fa della cemeterialità precostituita di ogni assunto vitale la sua struttura fondante e ‘devitalizzante’, in un sommesso delirio d’immobilità.

Tuttavia, mentre la didascalia dell’autore ci immette in un ambiente impressionisticamente crepuscolare, dove la desertificazione dell’anima è affidata per lente progressioni alla rarefazione e recursività del dialogo – a spirale – il regista, supportato dall’intelligenza scenica di Domenico Canino, opera una dilatazione astratto realistica vagamente onirica, iperrealistica, che impone subito a cornice dominante questo leitmotiv di fondo della desertificazione. Il cimitero è privato infatti di ogni connotato naturalistico, e si accampa a divorare in fosforescenza tutta la scena, per il contrasto tra una immensa parete di fondo in marmo nero - fatta dal mosaico di lapidi-loculo (le pure iscrizioni che ai morti toccano quando il lusso di una tomba deve traslocare in verticale, e spesso nell’anonimato senza più visitatori – cioè nella morte anche della morte come memoria) - e un pavimento in marmo bianco, sempre piastrellato di lapidi (controcanto fosforescente evidenziato dalle luci di scena, diffuse e fredde), su ciascuna delle quali si accampano patetici e simbolici mucchiettini di terra, quasi straniati formicai, residui della sepoltura come contatto umanizzante con la terra. Unico oggetto scenico, in primo piano, a sinistra, una panca-parallelepipedo, anch’essa gelidamente marmorea e lapidea, tavolo di dissezione mortuaria dell’anima dei dialoganti, dei loro spasmi vitali pre-mortuari. La scena crea dunque da subito silenzio e attesa, la cassa di risonanza geometrica del vuoto, dove la solitudine dei personaggi si accampa ed evidenzia per geometria alienante e sradicante, oltre che per il controluce del bagliore straniante del pavimento, su cui appaiono come ombre silenziose. E, diciamolo subito, perché è una caratteristica ricorrente del gruppo, a ciò si unisce a tratti, un ‘rumorismo’ esterno (voci di bimbi che giocano, traffico), segnale del mondo da cui la scena si strania, come la morte dalla vita. Pascolianamente un mondo che chiama e minaccia il ‘nido’ protettivo della rinuncia a vivere della paralisi di una morte già inscritta.

La situazione di base è banale. Lui incontra casualmente un ex amore, reciprocamente non dichiarato, e sull’onda di una progressiva rivelazione, e per interventismo di lei, scoprono di pensarsi da sempre, e si mettono insieme.

Lui è indeciso, fedele per routine al figlio e alla prima moglie, sposata a 19 anni. Amata ? Errore di gioventù ? Lui non crede all’amore né agli altri. Siamo tutti soli. Lei teme la solitudine - e la morte che tutto circonda e la evidenzia – sottolineata dal suo non aver figli. La loro storia è una lunga fuga, che nel dialogo di scena comparirà poi per brevi disordinati flashback. Sullo sfondo ci sono i genitori di lui, e da lui sempre evitati dopo l’adulterio e la fuga in una disperata felicità, lontano dalla madre castratoria, dal figlio castratorio, dagli obblighi castratori, incapace di reggere la scelta ‘in pubblico’. Un Oblomov a mezzo, che non rinuncia, ma non ha il coraggio di essere.

Ma i fantasmi emergeranno al funerale della nonna di lui, che costringe tutti a reincontrarsi: la madre, che vede solo il proprio terrore della solitudine e la vedovanza dal figlio, e non i desideri di lui e la sua realtà, il suo ‘vero sé’ (una madre isterica, aggressiva, patetica, possessiva, vittimistica); il padre, succube della madre, passivo, arroccato sul triangolo madre-sua-morta//figlio (un figlio che non dimenticherà la nonna, e forse in ciò proiezione riparatoria rispetto all’ambivalente Edipo paterno, e alla sua larvatica succubità alla moglie); ed infine la ex moglie, Gry, aggressiva ed accusatoria, che usa come strumento colpevolizzante il figlio ormai ventenne, Gaute, da lui trascurato, e ora morente in ospedale. Abbastanza magistrale, in tutto ciò, e su tutti prevalente, la figura della madre nel suo parlare al figlio della sua precedente famiglia di fronte all’amante, colpevolizzando lui, e gelando di disagio lei, tra finti piccoli tocchi di buona educazione. Oscilla tra la stupidità medio patetica e l’inconsapevole perfidia. Rischierebbe tuttavia il banale se non la salvasse ‘tragicamente’ la sua disperata ossessione della morte.

Infatti – benché il dialogo sia abile, e abbia buon ritmo e calibrate pause e non detti (con tratti di comicità del ripetitivo-banale-incomunicativo da ‘Cantatrice calva’ di Ionesco) – se non ci fosse un costante e surreale emergere stranito del filo dell’angoscia mortuaria, non si uscirebbe da un bergmanismo di serie B, o da crudele commediola anglosassone.

Due sembrano infatti essere i temi che si intrecciano. Da un lato la devitalizzazione cannibalica del maschio, agito dalle tre femmine ad uso disperato vitalistico: tutti e tre sono loro strumenti, e tutti e tre moriranno, dove la morte, apparentemente prima temuta, e istericamente esorcizzata e preconizzata, diventa invece la pacificatrice che riunisce al cimitero le tre ‘Parche’, nella concordia del possesso comune che la morte dona loro nella memoria condivisa.

Una tematica tipica del ‘matriarcato’ nordico.

Dall’altro però vi è quello destabilizzante - di cui solitudine, incomunicabilità, non fede e disperata ricerca dell’amore, sono corollario - della morte in sè, un a priori che tutto derealizza, dissolvendo i tempi della realtà in un unico tempo, per collassi temporali, sovrapposizioni, flashback, anticipazioni. I personaggi si comportano come morti viventi, perennemente anticipatamente derealizzati, ed il cimitero si trasforma - donando aristotelica unità di tempo alla tragedia - da cornice in attore principale, immobilizzando il tempo nell’ineluttabile già scritto del fato greco. E l’abilità di Fosse sta tutta in questi scricchiolii allucinatori della coerenza temporale, che con sapiente e silenzioso ritmo crescente divorano il banale quotidiano, e risucchiano la ‘presenza’.

Inquietante su tutti, forse perché ambiguo e polisemico, il grido ricorrente della madre, a più riprese (appello rivolto al padre di lui…. Padre simbolico, che forse potrebbe restaurare l’ordine franante ?), grido che chiede di non lasciar andare via il figlio con l’amante, perché ‘morirà !’.

Perché morirà ? Perché è la definitiva separazione dalla madre, e dunque morte ‘per lei’ ? Perché separarsi è in generale morire ? Perché l’amore senza figli è dissipazione di sé ? Perché accettare di vivere è morire, lontano dal eternante ‘non-tempo’ del materno ? Perché per lei muore a se stesso, tradendosi ?

Non è chiaro, e la domanda si fa inquietante davvero quando, all’improvviso, e banalmente, alzandosi dalla panchina e andandosene, il figlio muore veramente.

E’ un teatro di parola, dove la parola pesa e occupa tutta la scena, e poco concede al corpo. Una parola difficile, sospesa tra devitalizzazione, banalità quotidiana, neutralità astratta straniata, e tragicità. Eppure, se non esige il corpo ginnico di certe avanguardie, chiede però la maestria di un corpo sospeso nello spazio, vivo e meccanico al contempo, tra realtà e fantasmagoria burattinesca.

E in questo bisogna dire che bravi sono tutti gli interpreti, e probabilmente ben diretti, che si muovono tutti sulla falsariga di una staticità atonale, aiutati dalla cassa di risonanza dell’artificiale vuoto scenico: parlano rallentati, artificiali, come non credendosi. Viola Graziosi sceglie un registro che oscilla efficacemente tra le mossette da svampita leggera e crescente serietà atonale, un po’ sulla falsariga della bontempelliana ‘Minnie la candida’. Forse è solo un po’ meno credibile nelle parti in cui si intesta a provocatrice oscena. Superlativa e realistica è poi Daniela Piperno, sia nel registro perfido-patetico salottiero che in quello angosciato. E Sergio Romano trova il giusto tono in un uso della voce un po’ meccanico stanco, robotico, con un cantilenato strascicato stanco fisso. Più standard, anche se calzanti al ruolo, Elisa Amore (una Gry un po’ sovratono), e lo sfumato Massimo Lello (il padre).

E a chiusura di scena il pubblico resta con la giusta vaga nausea di chi deve decodificare qualcosa di leggermente ma crescentemente inquietante.

Fotografie di Marco Gatto ©

 

Scheda e locandina

Sogno d’autunno di Jon Fosse, del ‘Zerkalo Teatro’

traduzione - Fulvio Ferrari

progetto e regia di - Alessandro Machìa

aiuto regia - Elena Fuganti

assistenti alla regia - Dalila D’Amico, Brunilde Maffucci

scene - Domenico Canino

costumi - Fabrizia Migliarotti

light designer - Giovanna Bellini

sound designer – Michele Marsili

assistente scenografo – Carla Martino

assistenti ai costumi – Nicole Pasini

grafica – Barabba

In scena : Sergio Romano, Viola Graziosi, Daniela Piperno, Massimo Lello, Elisa Amore


Cartellone da definire

 


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