Testuali parole

Intervista a Luca Zevi

  • Stampa

Intervista a Luca Zevi,
curatore del Padiglione Italia alla 13. Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia

Luca ZeviEmma Tagliacollo: Il titolo del Padiglione Italia è Le Quattro Stagioni. Architetture del Made in Italy da Adriano Olivetti alla Green Economy. Mi sembra che si scelga una periodo positivo e innovativo della nostra Storia dell'Architettura, all'interno della quale economia e senso civico si mescolano. Quale il suo pensiero?

Luca Zevi: Direi che si rilegge una pagina di Storia dell'Architettura in un momento di grave crisi del nostro paese. Per tentar di contribuire modestamente a una fuoriuscita da questa crisi, il nostro Padiglione Italia cerca innanzitutto di capire chi manda avanti in questo momento, nonostante tutto, l'Italia. Ci si imbatte, lungo questa ricerca, in una miriade di piccole e medie imprese – molte certamente colpite dalla crisi – caratterizzate da una produzione specializzata che le ha rese competitive sul mercato internazionale. I loro stabilimenti e centri direzionali sono insediati nel territorio piuttosto che a ridosso delle grandi città, esattamente come proponeva Adriano Olivetti, che viene riproposto non per semplicemente per celebrare un personaggio illustre, ma perché la sua idea di modernizzazione del nostro paese - una nuova, inedita stagione dell'Italia delle Cento Città, un'Italia policentrica, articolata in una serie di insediamenti di medie dimensioni “collegati in rete”, all’interno dei quali il valore del lavoro è legato alla creatività e alla originalità piuttosto che alla massificazione - si è rivelata nel tempo la più lungimirante.
Ivrea rappresenta una sorta di prototipo, nel quale la qualità del luogo di lavoro si sposa a quella dell'insediamento e dei servizi. Un modulo urbano riproducibile all’interno di una prospettiva di sviluppo policentrico, come quella da lui prefigurata per la Val d'Aosta. Una prospettiva di sviluppo regionale che Adriano rilancerà a livello nazionale in qualità di presidente dell'Istituto Nazionale di Urbanistica. All'indomani della sua scomparsa prematura c'è una corsa a celebrarlo come grande personaggio fondamentalmente ottocentesco, la cui visione va risolutamente superata a favore di un’alternativa incentrata sulla grande impresa e su un processo accelerato di metropolizzazione che, trascorso il suo “ventennio d’oro”, si è rivelata in fondo effimera, se è vero com’è vero che, purtroppo, in Italia non esiste più una grande fabbrica e le città più grandi sono prevalentemente in crisi. Dunque è ancora il tessuto delle Cento Città - e la produzione decentrata a livello di territorio – a mandare avanti il nostro paese. A partire da questa ricostruzione storica, abbiamo articolato il nostro lavoro su Le Quattro Stagioni.

ET: Vuole spiegare il senso de Le Quattro Stagioni?

LZ: La prima è dominata dalla figura di Adriano Olivetti che ha la grande visione e delinea il modello di sviluppo conseguente. La seconda, che attraversa l’intero periodo successivo alla seconda guerra mondiale e arriva sino ai nostri giorni, è caratterizzata dalla persistente fioritura di un “individualismo imprenditoriale” creativo, che non si lascia intimidire dalla mole delle grandi fabbriche e continua ad espandersi sul territorio. Non gode di alcun supporto da parte della cultura architettonica e urbanistica – catturata dalla grandeur produttiva e urbana - e di conseguenza la sua vitalità produttiva non trova riscontri di qualità in termini spaziali. E’ l’epoca del casannone cioè della produzione confinata nel sottoscala o nel capannone attiguo alla villetta progettata dal geometra. Una tipologia industriale che conosce un boom a partire dagli anni '80, in coincidenza con la crisi irreversibile delle grandi imprese. A partire dalla metà degli anni '90 alcune migliaia di queste industrie - circa 4000 - si consolidano, conquistano il mercato internazionale e alimentano il prestigio italiano nel mondo e proprio per questo avvertono la necessità di rappresentarsi sul piano architettonico, rivolgendosi a professionisti qualificati. E’ la terza stagione, quella della diffusione delle architetture del Made in Italy, quella che stiamo ancora vivendo, pur sotto i pesanti colpi della crisi. Proprio alle aziende protagoniste della terza stagione lanciamo la sfida di porsi alla testa di un processo di ripresa economica – l’auspicabile quarta stagione - riportando al centro dell’attenzione il lavoro nel contesto di una comunità operosa. Un processo caratterizzato da produttività, creatività e sostenibilità, com’è sempre stato nella tradizione non solo della nostra industria, ma anche della nostra agricoltura, la cui “efficienza aziendale” scaturisce da un progetto complesso incentrato sulla compresenza e sulla rotazione delle culture. Questa “architettura del paesaggio agrario italiano” – non esiste nel nostro paese un centimetro quadrato che non sia stato trattato, con amore e competenza, dall’uomo – è una componente essenziale, forse addirittura una radice del Made in Italy, che ha continuato ad evolversi nel corso dei secoli. Un’architettura che, analogamente a quanto è occorso agli insediamenti storici, ha subito manomissioni a causa tanto di un’impropria immissione di produzioni monoculturali – al pari della grande industria mirata a un profitto rapido, che però si esaurisce rapidamente -, quanto dell’abbandono delle campagne dovuto all’urbanizzazione – che ha determinato un’impressionante dilatazione delle superfici boschive –, quanto infine dell’invasione edilizia del territorio. Un rilancio dell’agricoltura del Made in Italy, che alla piccola scala è già in atto, è importante quanto quello dell’industria. Per questo - anche avvalendoci della collaborazione di Expo 2015, che ha per tema “nutrire il pianeta” - dedichiamo alla produzione alimentare un’attenzione speciale, cercando di dimostrare come nella nostra storia, attraverso una coniugazione virtuosa fra efficienza e complessità, si sia prodotto un paesaggio “artificiale” di incomparabile bellezza. Saranno in mostra esperienze-pilota di architettura biologica e soprattutto l’incipiente ma tendenziale ritorno dell’agricoltura in città, attraverso il recupero alla funzione produttiva di terreni abbandonati, soprattutto ad opera di nuove cooperative di produzione, e la diffusione degli orti urbani. Un'altra risorsa fondamentale è la solidarietà. Si è consumata una grande crisi culturale, prima ancora che economica, dello stato sociale, che rappresenta comunque una grande conquista dell'umanità nella direzione di garantire a ognuno un’esistenza dignitosa. Per questo andiamo a cercare e a documentare anche esperienze di imprese sociali che tentano di compensare qualche squilibrio, determinato dal trionfo del mercato e del mito della sua capacità di soluzione automatica di tutti i problemi. La quarta stagione che proponiamo conduce verso la Green Economy, che non è un sogno bucolico ma quello che potremmo definire “un capitalismo ben temperato”. Un capitalismo che fa leva sul desiderio degli imprenditori di esercitare la loro funzione in maniera autenticamente creativa e sulla necessità di mettersi in rete fra di loro per far fronte alla concorrenza sul piano internazionale. Ma di mettersi in rete anche con le imprese attive nel settore agricolo e in quello sociale, per scongiurare gli squilibri più pesanti che si sono andati producendo negli ultimi decenni, da un lato, e per rimpolpare la categoria dei consumatori, che la crisi sta pericolosamente assottigliando. A questa “riscrittura del patto”, a questo progetto di rilancio dedichiamo il Padiglione Italia, nella convinzione che la capacità di gestione dello spazio e del territorio – in ultima analisi l’architettura – non potranno non svolgere un ruolo di primo piano in questo processo. Non affidiamoci alla manovre economiche, pur indispensabili. Puntiamo sulle nostre vere forze, se veramente vogliamo «potercela fare da soli», non delegando il nostro avvenire a misure imposte da organismi internazionale che, ove non accompagnate da un autentico processo di ripresa endogena, non possono che condurre a un’ulteriore compressione della nostra economia.

ET: Pensa che l'architettura possa aiutarci a recuperare elementi di forza e di senso per la crescita del nostro paese?

LZ: Non può esistere un progetto di rilancio economico senza una proiezione territoriale, una visionarietà concreta, un'espressione fisica. Non a caso Adriano Olivetti, che era un vero innovatore, tante energie e risorse ha dedicato alla cultura e alla pianificazione del territorio. E non è altresì un caso se l’Olivetti è stata azienda floridissima proprio nelle fasi in cui massimo è stato l’investimento sul piano della ricerca scientifica e dei servizi sociali. Quando è finita nelle mani di presunti abili manovratori finanziari, ha sprecato occasioni storiche per condurre il nostro paese al vertice dei settori di punta della produzione industriale contemporanea, arrivando a un sostanziale fallimento. E' molto importante che oggi il mondo dell'architettura si metta al lavoro per delineare uno sviluppo possibile e il Padiglione Italia rappresenta in questo senso anche un accorato appello, a noi stessi e ai nostri colleghi, a muovere in questa direzione. Usciamo da un’epoca nella quale l’architettura ha dimostrato grandi capacità nel rappresentare sul piano figurativo poteri e istituzioni. Oggi deve fare altrettanto nel tentare di dar corpo a un habitat inedito e affascinante, caratterizzato da efficienza e sostenibilità sul piano produttivo come su quello sociale. Una sfida davvero affascinante.

ET: Il suo progetto curatoriale prevede una riflessione sul progetto, ovvero sulla capacità di modificare consapevolmente il paesaggio attraverso l'opera dell'uomo, e sul “progetto mancato” come portatore di degrado (II stagione: assalto al territorio). Quale bilancio si sente di fare su questi interventi (talvolta inconsapevoli)?

LZ: Il paesaggio italiano è puro progetto, come spiega molto bene Mauro Agnoletti, uno dei maggiori geografi e paesaggisti che abbiamo. Tutto ciò che non è progetto conduce, prima o dopo, a decadenza. Sappiamo che dal dopoguerra si è verificato un abbandono delle zone interne e una loro riconquista da parte del bosco. Non si tratta di un successo della “natura vergine”, ma di una sconfitta della nostra capacità di produrre beni e paesaggi, perché non è a detrimento del costruito ma del paesaggio agricolo. E’ dunque tempo di elaborare un progetto capace di coinvolgere attraverso un approccio unitario città storiche e paesaggi, infrastrutture e nuovi insediamenti.

ET: Il Padiglione Italia sarà un luogo/una architettura sostenibile. Quale definizione di sostenibilità pensi possa coniugare la complessità della vita contemporanea con il nostro essere parte della natura?

LZ: Sostenibilità è capacità di azione complessa, è approccio olistico al territorio, entro il quale tutte le componenti devono poter agire in una dimensione sinergicamente positiva. E' un progetto di sviluppo integrato, mirato a considerare tutti gli aspetti in vista di un benessere che non si esaurisca nella semplice capacità di consumo individuale. Parlare di “decrescita”, in questo senso, è un modo per continuare a legittimare un concetto di crescita basato sull’assunzione esclusiva del PIL quale parametro della crescita, secondo un pensiero “a una dimensione”, come continuerebbe probabilmente a definirlo Herbert Marcuse. A mio avviso vi è la possibilità di una crescita diversa, di tipo integrato, forse meno eclatante, ma certamente più qualificata e duratura.

ET: Qual è la responsabilità culturale che ha oggi - in questo particolare momento storico - il curatore del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia?

LZ: Mi sono sentito investito da una grande responsabilità, al punto di arrivare a delineare un Padiglione molto diverso da quelli che lo hanno preceduto, perché scaturente da una situazione assai critica in cui anche gli architetti sono coinvolti. Una responsabilità che ho condiviso con un gruppo di lavoro multidisciplinare particolarmente qualificato e appassionato, che ha reso gioiosa questa esperienza avventura massacrante. Una responsabilità di contribuire, modestamente ma fermamente, a un rilancio dello sviluppo italiano entro il quale l'architettura possa avere il ruolo che le spetta e che merita. In questo senso sono stato animato dalla volontà di lavorare al servizio degli architetti italiani anche nel tentare di delineare un “territorio dell’architettura” prossimo venturo, come ritengo debba fare un curatore nel momento in cui è chiamato a rappresentare il proprio paese. Ho cercato di intravedere delle strade per uscire dalla crisi in cui è immersa la professione, attraverso il rilancio di una progettazione complessa e altamente qualificata.