Statistiche dal 2010

Visite agli articoli
4412962

Abbiamo 235 visitatori online

Cerca nel sito

Fogli e Parole d'Arte

Rivista d'arte on line, ha ricevuto il codice ISSN (International Standard Serial Number)

1973-2635
il 23 ottobre 2007.

Fogli e Parole d'Arte è diretta da
Andrea Bonavoglia (Vitorchiano)
e distribuita on line dalla società Ergonet di Montefiascone (Vt).

Fogli e Parole d'Arte

non ha scopo di lucro, non propone alcuna pubblicità e ha come unico interesse la diffusione della cultura.
Pertanto, le immagini pubblicate si attengono all'a
rticolo 70, comma 1bis della legge sul diritto d’autore, dove si afferma che è possibile la "libera pubblicazione attraverso la rete Internet, a titolo gratuito, di immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate, per uso didattico o scientifico e solo nel caso in cui tale utilizzo non sia a scopo di lucro".

 

 - Nuova informativa sui cookie -

 


Piero e la Flagellazione

Come un assalto di scherma


Attacco. Parata. Risposta

 

Premessa

Federico di Montefeltro alla fine degli anni ’60 del Quattrocento dette una poderosa accelerata alla grandiosa sistemazione del suo Palazzo. Il Conte di Urbino era totalmente infervorato dai precetti architettonici di Leon Battista Alberti, ma il problema era che un architetto toscano al dentro delle teorie albertiane al momento non era reperibile; come scrive nella patente data a Luciano Laurana nel 1468, era soltanto per non aver trovato un architetto in Toscana che ripiegava, con tutti gli onori, sull’architetto dalmata. Nel 1471, come si evince dai documenti che ho riportato altrove, Luciano Laurana veniva dimissionato e sostituito con Antonio del Pollaiolo sotto lo pseudonimo di Pippo fiorentino di Ser Brunellesco. In realtà il Conte aveva costruito una squadra di lavoro con il capo-fabbrica Pollaiolo e due esecutori, Ambrogio Barocci per l’architettura e le sculture correlate e Fra Carnevale per la pittura. Il non aver focalizzato la struttura operativa ad Urbino negli anni ’70 ha portato ai clamorosi errori attributivi dell’Ottocento.

Una tale organizzazione non poteva comprendere il grande pittore locale Piero della Francesca, la cui arte cristiano-idealizzata era particolarmente invisa all’anima pensante della Contea, Ottaviano Ubaldini della Carda, l’alter ego di Federico, che richiedeva un’impronta verista e areligiosa nelle realizzazioni artistiche. Il problema fu che, al contrario di Laurana spedito senza resistenze come architetto alla Corte napoletana, il grande Piero non poteva accettare passivamente una sua estromissione in tronco dalla Corte urbinate. La corretta interpretazione della Flagellazione rende conto di quale fosse il risentimento del Borghigiano verso il Conte e verso il suo capo-fabbrica Antonio del Pollaiolo. Ecco allora i tre contendenti salire in pedana per un assalto di scherma, Piero della Francesca, Donato Bramante e Andrea Mantegna.

 

Attacco

Fig. 1, Piero della Francesca, La Flagellazione

(cfr.  l'articolo di Giontella del 2015 sulla nostra rivista)


Il dipinto, su tavola di pioppo delle dimensioni cm 59 x 81,5, risulta inesistente fino al 1744 quando è descritto nella sagrestia della Cattedrale di Urbino, in un inventario delle opere d’arte e degli arredi, redatto dall’arciprete Ubaldo Tosi. Nel 1839 lo storico dell’arte tedesco Passavant annotava di aver letto, sul lato del dipinto dove sono inseriti i tre personaggi in primo piano, la scritta “Convenerunt in unum” estrapolato dal libro dei Salmi (II), musicato dal madrigalista Carlo Gesualdo da Venosa: “Adstiterunt reges terrae et principes convenerunt in unum adversus Dominum et adversus Christum eius” “Si sollevarono i re della terra e i principi congiurarono insieme contro il Signore e contro Cristo suo”. In un’ ispezione effettuata da Crowe e Cavalcaselle nel 1864 la scritta non risultava più rintracciabile, per cui si deve dedurre che fosse posizionata sulla parte destra della cornice, nel frattempo asportata. Tale ipotesi è avvalorata dal fatto che se la locuzione fosse stata posta direttamente sul dipinto, qualche traccia sarebbe ancora evidenziabile all’esame radiografico o alla riflettografia ad infrarossi. La
Flagellazione passò al Palazzo Ducale nel 1916 dove fu trafugata il 6 febbraio del 1975 unitamente alla Madonna di Senigallia e alla Muta di Raffaello; il recupero dei tre capolavori avvenne nel marzo del 1976 a Locarno. Quanto ai giudizi della critica, il primo a darne un giudizio entusiasta fu Adolfo Venturi nel 1911 seguito da Roberto Longhi nel ’13 e ancora da Berenson che scrisse di prediligere la Flagellazione tra le opere di Piero per l’assenza di drammaticità. In effetti la fissità atemporale del dipinto rappresenta l’ estrinsecazione più rispondente dell’arte del Borghigiano. Alla valutazione dei grandi critici di primo Novecento ha fatto seguito una serie interminabile di scritti che hanno esaltato l’altissimo livello artistico dell’opera.

Sul dipinto è presente, a mo’ di firma, la scritta “Opus Petri De Burgo Sancti Sepulcri”. Le firme sui dipinti di Piero della Francesca hanno un’ evidente difformità tra di loro; nella fattispecie la scritta è sicuramente coeva, ma la posizione e i caratteri cubitali inducono a ritenere che la locuzione sia stata fatta inserire verosimilmente dal committente proprio per enfatizzare l’importanza del dipinto e del suo autore. Analoga paternità è da attribuire alla scritta convenerunt in unum della cornice che, per quanto sosterremo appresso, è da considerare estranea all’esecutore del dipinto.

 

* L'impostazione e l'interpretazione: la datazione

Già nel 1744 l’arciprete Tosi aveva rimarcato la singolarità di un dipinto dove Cristo viene messo in secondo piano e i soggetti principali risultano essere i tre personaggi sulla destra. Come è stato a più riprese evidenziato l’opera è divisa in due scene: nella scena di destra sono i personaggi che dominano le architetture, mentre nella scena di sinistra sono le architetture che dominano i personaggi. Si possono pertanto distinguere una scena principale rappresentata dai tre personaggi sulla destra e una scena secondaria, sulla sinistra, dove prevalgono le architetture con il Cristo flagellato sullo sfondo che acquisisce un significato simbolico, avulso dal suo reale sacrificio per la salvezza degli uomini. Sorge subito una domanda sull’iconografia dell’opera: se il soggetto principale del dipinto sono i tre personaggi sulla destra perché non sono nel posto d’onore a sinistra? Una prima motivazione è evidente: Cristo non poteva essere posto a destra, ma non essendo attore principale del dipinto è a sinistra sullo sfondo; relativamente a quest’ultimo punto vedremo appresso una seconda motivazione strettamente legata alla sfera d’azione del pittore. L’impostazione dell’opera, basata sul connubio fra i tre personaggi sulla destra e le architetture sulla sinistra, fa pensare a due messaggi congiunti ma separati nell’elaborazione. Come vedremo la fonte dei due messaggi è il committente, ma nelle due scene del dipinto interviene direttamente l’esecutore per dire la sua su quanto lo riguarda.

L’analisi dei tre personaggi di destra ci fornisce già a prima vista dati difficilmente confutabili. Un breve excursus storico: Oddantonio di Montefeltro, il biondo diciassettenne Duca di Urbino, sorpreso nel sonno la notte tra il 22 e il 23 luglio del 1444, nonostante il suo tentativo di nascondersi e le sue suppliche, fu assassinato da congiurati che ne deturparono il corpo, mutilandolo orrendamente degli organi sessuali, per poi buttarlo, insieme ai cadaveri dei suoi consiglieri, nella strada di Urbino adiacente il Palazzo Ducale.
Non si può negare che il giovane al centro tra i due personaggi nel dipinto sia Oddantonio, se indossa la veste da camera rosso-ducale, è soltanto lui scalzo fra i tre come chi viene sorpreso nel sonno, ha le sembianze direttamente rapportabili alle sue raffigurazioni esistenti ed è posto in strada proprio perché gettatovi dopo essere stato assassinato. Considerando superfluo continuare a disquisire sull’identità del giovane al centro, mi astengo dal riportare le interpretazioni alternative e prendo in considerazione, alla sinistra del Duca, l’uomo attempato che indossa una veste altrettanto eloquente: la stoffa arabescata con motivi a fiori di cardo parla inequivocabilmente per la famiglia Della Carda. Se la veste testimonia che si tratta di un Della Carda, chi può essere il componente di quella famiglia? In base alle datazioni più accreditate dell’opera, che si aggirano intorno agli anni Cinquanta del Quattrocento, non potrebbe che trattarsi di Bernardino Ubaldini Della Carda, morto nel 1437, raffigurato nel periodo precedente il suo decesso. Bernardino era un impavido guerriero il cui aspetto mal si concilia con quello dell’uomo dalla veste di broccato, evidentemente molto più portato alla speculazione che alle imprese militari. L’immagine del dipinto si staglia perfettamente sulla personalità di Ottaviano Ubaldini Della Carda, l’eminenza grigia del Ducato di Urbino, l’uomo dell’esoterismo e dell’alchimia, ma il riconoscimento cade immediatamente se si considera il dipinto realizzato alla metà del Quattrocento perché Ottaviano nacque nel 1424 e l’uomo del dipinto è per certo un cinquantenne. Non v’è che una soluzione: spostare la datazione dell’opera al 1475, una collocazione del tutto compatibile con il portale presente nella scena di sinistra che rimanda direttamente al portale del Guardaroba del Palazzo Ducale, realizzato per l’appunto negli anni ’70, come le altre ornamentazioni e lo scalone del Palazzo; la rilevazione fa decadere la storica datazione degli anni ‘50 su cui sono state costruite molteplici ipotesi interpretative. Il giovane alla destra di Oddantonio, con la barba biforcuta, è anonimo ma il suo aspetto fa pensare che nelle mentite spoglie del “Turco malvagio” vi sia un personaggio che è troppo pericoloso attaccare apertamente. Dei tre personaggi il turco “invade” la colonna della prima scena perché è evidentemente coinvolto anche in quella: ma di chi si tratta? Il riconoscimento di Roeck a tale riguardo appare ineccepibile11: è Federico di Montefeltro nei panni di un turco ma non di Giuda, come sostiene Roeck, perché sarebbe un pleonasmo. L’orientale ha i piedi in due staffe proprio per far intendere di essere la stessa persona che impersona Pilato nella scena precedente.

Nella Legenda Aurea si legge la storia “legendaria” per l’appunto di Pilato che nacque, come figlio illegittimo, dall'unione di un re di nome Tyrus e di un'umile ragazza di nome Pyla, figlia di un mugnaio. All'età di tre anni Pilato venne mandato dal re, che però aveva avuto un altro figlio, legittimo e migliore di lui in tutto; Pilato, colto da invidia e odio nei confronti del fratellastro più dotato, lo uccise. Per punirlo, il re inviò Pilato a Roma come ostaggio, al posto del tributo che doveva annualmente pagare all'Impero. Le doti di crudeltà di cui dette prova Pilato convinsero Roma ad affidargli compiti governativi in provincie difficili: il Ponto e la Giudea.
Come Pilato, Federico di Montefeltro dopo essere stato adottato da Guidantonio come suo successore, aveva perso ogni diritto con la nascita di Oddantonio e proprio come il Pilato della Legenda Aurea, Federico era stato “esiliato” a Venezia dalla primavera del 1433 all'autunno del 1434.
Nella scena di sinistra del dipinto Federico è posto nelle vesti di Pilato: lo Skiadion greco in testa (la feluca) e i calzini rossi non intendono essere riferiti a un imperatore ma all’autorità ducale di cui era stato gratificato il Montefeltro nell’agosto del 1474; Roeck sostiene giustamente, che nella battaglia di Ponte Milvio di Piero non soltanto Costantino ma anche Massenzio indossano entrambi il copricapo del tipo Skiadion, quindi per il Borghigiano si trattava di ritrarre un’autorità e non un Princeps imperiale. 
La colonna su cui poggia l’idolo dorato con la sfera terrestre in mano, a parte il legame con il sacrificio di Cristo, ha la funzione di enfatizzare i moventi dell’uccisione del Duca legittimo: il denaro e il potere. Se il giovane “turco” è in realtà il fratricida Federico di Montefeltro e l’uomo dall’abito arabescato è Ottaviano Ubaldini della Carda, suo fratello e alter ego nel Ducato, la scritta “Convenerunt in unum” estrapolata dal Salmo II e fatta apporre dal committente nella corrispondente parte della cornice trova la seguente lettura parafrasata: Federico e Ottaviano pianificarono insieme l’assassinio di Oddantonio affidandone l’esecuzione materiale a personaggi che erano stati oggetto delle vessazioni del Duca e dei suoi perversi consiglieri, Manfredo dei Pii e Tommaso di Guido dell’Agnello. E’ inutile cercare delle somiglianze chiarificatrici dei due personaggi a fianco di Oddantonio; soltanto questi poteva essere ritratto nei suoi reali lineamenti mentre i due personaggi a suo fianco dovevano restare rigorosamente criptati nella loro identità, rendendoli anche non coetanei, per non incorrere in violente ritorsioni. Le connessioni della Flagellazione con la Legenda Aurea sono ampiamente suffragate dal fatto che Piero della Francesca si ispirò ripetutamente ai racconti di Jacopo da Varagine e del resto l’accusa a Federico e Ottaviano operata nel dipinto è fondata: lo prova quanto scrive nei Commentari Enea Silvio Piccolomini, futuro Pio II, secondo cui il Montefeltro, dimorante in quel tempo a Pesaro, all’alba del 23 Luglio si trovava già alle porte di Urbino e quindi non poteva essere all’oscuro della congiura12.

 

* La committenza e la finalità della realizzazione

Il committente della Flagellazione è verosimilmente un componente della famiglia che ha subito l’offesa dell’assassinio di un proprio congiunto. Il cerchio si restringe a due personaggi: Violante e Sveva Montefeltro, le sorelle di Oddantonio entrambe accusate di aver tramato contro Federico ed entrambe spose di Cristo dopo il matrimonio terreno. Violante, scappata a Roma insieme a Sveva presso lo zio Prospero Colonna dopo la congiura contro Federico del 1446, è esclusa come committente in quanto negli anni ’70 era estraniata dal mondo in un monastero a Ferrara.
Sveva Montefeltro è al contrario da ritenere la verosimile committente del dipinto; sposa in seconde nozze di Alessandro Sforza, Signore di Pesaro, fu accusata da questi a torto o a ragione di aver ceduto alle lusinghe di un avvenente cortigiano, Ludovico Bergolini e di aver tramato per portare il Malatesta alla guida di Pesaro. Su consiglio di Federico di Montefeltro, che si considerava parte offesa, Alessandro fece sciogliere il matrimonio e per Sveva si aprirono le porte del convento delle Clarisse a Pesaro. La donna non accettò supinamente le accuse e il sacrificio, come scritto dai suoi agiografi a sostegno della beatificazione, ma stilò un testamento in cui, ritenendosi la legittima erede del Ducato di Urbino, ne nominava successore il figliastro Costanzo, con ciò accusando Federico di essere l’usurpatore che aveva orchestrato l’assassinio del Duca legittimo: “ Sana di mente e di corpo fatto il 23 agosto nel Monastero di Santa Chiara, detto del Corpo di Cristo, dell’Osservanza di S.Francesco in Pesaro dichiara erede di lei lo inclito adolescente Costanzo Sforza nelle terre, castelli, stato, Signoria, beni stabili e mobili che furono et essere possevano della felice memoria illustre signore conte Guido de Montefeltro Urbino, Durante etc. mio padre et illustre signore Oddo Antonio duca de Urbino, mio fratello”.
L’utilizzazione nel secolo XV del volgare nella stesura di un testamento, per evidente volere della testatrice, aveva la finalità di rendere accessibili quanto più possibile le sue volontà di esautorare Federico di Montefeltro. Entrando in convento Sveva prese il nome di Suor Serafina per immortalare di fronte a Cristo la congiura dei “Serafini”, come fu chiamato l’assassinio di Oddantonio, di cui per l’appunto fu l’autore più spietato il medico urbinate Serafino dei Serafini, ferito nell’onore da Manfredo dei Pii che ne aveva violentato la moglie. La sorella di Sveva, Violante Montefeltro, dopo la perdita del consorte Novello Malatesta, prese anch’essa i voti nel convento di Ferrara nel 1465 con il nome di Suor Serafina. Lo stesso nome assunto dalle due sorelle non è ovviamente casuale ma rappresenta un evidente, paritetico riferimento alla congiura contro Oddantonio.
Nel 1474 la nomina ducale di Federico, avvenuta trenta anni dopo l’assassinio di Oddantonio, quando, secondo il diritto romano ogni colpa era estinta, fece di nuovo sobbalzare lo spirito combattivo di Sveva che, divenuta l’anno seguente badessa, con l’autorità di competenza, commissionò il dipinto proprio per dare ai posteri la testimonianza della colpevolezza dell’usurpatore e del suo complice. Il fatto che la
Flagellazione sia stata elencata nell’inventario del 1744 stilato per le opere del Duomo di Urbino rende del tutto plausibile la pregressa provenienza dal convento delle Clarisse di Pesaro. Il dramma vissuto da Sveva prima di entrare in convento, il testamento e il nome assunto da consorella, depongono per il suo riconoscimento come committente dell’opera le cui dimensioni rendono per di più del tutto appropriata la sua collocazione in una cella monacale. Le sembianze del Turco malvagio date a Federico nel dipinto sono verosimilmente una disposizione di Sveva; i Montefeltro avevano familiarità con il chiamare “turco” i componenti della loro famiglia che non si comportavano correttamente. Violante Montefeltro proprio in difesa della sorella Sveva si esprimeva come segue nei riguardi di Alessandro Sforza: “Il Signor Messere Alessandro è un cane et un turco et che a torto calumiava questa”14.
D’altra parte la destinazione del dipinto al rifugio segreto di un convento tranquillizzava Piero della Francesca nell’immortalare su tavola l’ attacco violento che portava a un Duca nel pieno dei suoi poteri; in ogni caso il pittore si premurò di criptare ogni messaggio, vedi la forma della scala che si vede sullo sfondo della scena di sinistra del dipinto: è un riferimento allo scalone del Palazzo Ducale di Urbino, fatto insieme alle ornamentazioni dei portali alla metà degli anni ’70.
Se la motivazione principale per la realizzazione della
Flagellazione era l’accusa da parte di Sveva di assassinio nei riguardi di Federico, altrettanto importante era l’orgoglio ferito di un grande pittore che con il dipinto voleva rispondere colpo su colpo alle valutazioni del Duca e del suo sodale Ottaviano Ubaldini. La risposta a quest’ultimo, forse il più inviso dei due a Piero, fu quella di rappresentarlo nel dipinto esattamente come avrebbe fatto un grande pittore fiammingo, tempestandone la veste di fiori di cardo. Le architetture albertiane della parte sinistra dell’opera, riflettenti sia il portale del Guardaroba sia simbolicamente lo scalone del palazzo ducale, erano un riferimento ai lavori fatti in quel periodo dal binomio Pollaiolo-Barocci che dal ’72 aveva sostituito Luciano Laurana15. Piero della Francesca ovviamente non intendeva rivendicare a sé la direzione della fabbrica di Urbino, ma attaccare direttamente Antonio del Pollaiolo complice di un fratricida, sollevando per di più dubbi sulle sue reali capacità di architetto: i capitelli ionici della Flagellazione, con otto volute a dispetto dei dettami classici, sono maliziosamente eloquenti a riguardo. In effetti nella Flagellazione Piero ritrae anche Antonio del Pollaiolo: è l’uomo di spalle che a sinistra, guarda la Flagellazione di Cristo. Piero voleva lanciare il messaggio che Pollaiolo con le sue opere sosteneva l’assassino Federico. In una prima stesura l’uomo di spalle non aveva il turbante; in un secondo momento, Piero, nel timore che l’accusa a Pollaiolo fosse troppo manifesta, con uno spolvero inserì il turbante sulla testa dell’uomo, camuffandolo da orientale.

Infine, l’aver posizionato Cristo sullo sfondo lasciava intendere che si trattava di una presenza puramente simbolica ma al tempo stesso che il grande Piero della Francesca non era soltanto il pittore delle storie cristiane. Il Borghigiano deve avere anche esternato i suoi attacchi ad Antonio del Pollaiolo perché altrimenti Bramante non avrebbe realizzato il disegno da cui è stata tratta l’Incisione Prevedari.

 

Parata

Fig. 2, Bernardo Prevedari, Incisione

 
L’acrimonia di Piero della Francesca nei riguardi di Antonio del Pollaiolo non poteva essere accettata da Bramante, allievo dell’artista fiorentino per l’architettura albertiana; ma l’Urbinate era al tempo stesso un giovane conterraneo di Piero, che non poteva rispondere per le rime. Secondo i costumi dell’epoca, in forma criptica, Bramante porta a riprova del valore di architetto e di pittore di Antonio del Pollaiolo proprio la Pala Montefeltro, attribuita nell’Ottocento, senza fondamento, a Piero della Francesca da parte di Cavalcaselle e Schmorsow.

 

* L’Incisione Prevedari e la sua interpretazione attestante la paternità di Antonio del Pollaiolo sulla Pala Montefeltro.

Si tratta di un’ incisione a bulino di dimensioni inconsuete mm 705 x 513 la cui realizzazione spetta all'orafo Bernardo Prevedari, membro di una famiglia originaria della provincia di Bergamo.

L’opera fu eseguita nel 1481 su commissione del pittore Matteo Fedeli in derivazione da un ermetico disegno di Donato Bramante, per lungo tempo ritenuto l’autore dell’incisione. Il ritrovamento del contratto stipulato tra Prevedari e Fedeli ha indotto a riconsiderare il ruolo di Bramante il cui disegno in mano al Prevedari veniva venduto al Fedeli per tre Lire Imperiali.

Restano due stampe dell’opera a bulino, conservate rispettivamente alla Civica Raccolta di Stampe Achille Bertarelli del Castello Sforzesco di Milano e al Dipartimento dei disegni del British Museum di Londra.

L’analisi dell’opera mostra scene diverse raccolte in una costruzione in rovina che non è una chiesa né un tempio pur essendo ad essi assimilabile, caratterizzata da due forme architettoniche parallele, riconducibili a navate, di cui una maggiore ed una minore. Sembra evidente che Bramante non ha voluto realizzare una struttura ben definita ma un ché di simbolico; le mura che crollano con dei fili di erba tra di esse nella cupola di destra vogliono ricordare un episodio di distruzioni che si è ormai svolto nel passato.

I due ambienti presentano delle scene diverse riunite insieme da un filo conduttore comune; procedendo nell’ interpretazione, notiamo nella struttura di sinistra, al di sotto della cupola, un fregio che mostra una scena alquanto movimentata: sulla parte destra si rileva un verosimile episodio di violenze su donne mentre a sinistra carri tirati da cavalli e buoi portano delle casse evidentemente ripiene di oggetti di valore. L’insieme della scena fa pensare che si tratti di un saccheggio; al di sotto del fregio un oculo nell’interno del quale è raffigurato il busto di un uomo insolitamente voltato di spalle e sotto a questi un’abside che riprende fedelmente quella raffigurata nella Pala Montefeltro. Ai lati dell’oculo sono presenti due centauri mentre la rappresentazione è inserita in una struttura architettonica che richiama l’arte romana classica con medaglioni di Imperatori. Nel sottostante catino absidale si trovano, sui lati, due altri medaglioni di cui quello a sinistra mostra ancora un Imperatore mentre a destra è ben riconoscibile Federico di Montefeltro che indossa l’elmo: l’invitto condottiero del secolo XV insieme ai grandi del passato. Bramante poteva inserire Federico tra gli imperatori romani giocando sull’originario significato di Imperator che era appunto generale1. La lettura della composizione è verosimilmente la seguente: in alto il sacco, in basso la Pala Montefeltro che ha accanto l’effige di Federico. Le mura in rovina simboleggiano le distruzioni, operate nove anni prima, dalle bombarde durante l’assedio di Volterra; Federico ha commissionato la Pala in riparazione del sacco che è seguito alla resa2. Nella navata di destra sullo stesso piano del medaglione dove è raffigurato Federico, due uomini di cui uno è a terra ferito: le morti e i ferimenti rappresentano la motivazione che ha spinto Federico a commissionare la Pala. Al piano terreno sottostante uomini in armi, vestiti in modi diversi, con i loro cavalli: sono i mercenari responsabili del sacco. Al limite tra le due strutture architettoniche, due paggi dei quali uno tiene in alto una lancia: è l’ordine, dato da Federico, di fermare il sacco. Nell’oculo disposto tra la pala, di cui è raffigurata l’abside, e il fregio raffigurante il sacco, l’uomo voltato di spalle: è l’autore della Pala che si ispira alla romanità e alla mitologia ma non vuole che si sappia il suo nome; la presenza dei due centauri vuol esplicitare il modus agendi dell’artista che dava comunemente alle sue rappresentazioni, due possibilità di lettura. A terra, di fronte all’abside, alcune persone parlano indicando in alto l’abside mentre un’altra la guarda ammirata: è il successo che riscosse la Pala Montefeltro. In primo piano a sinistra un Cardinale con il suo assistente: è verosimilmente Giuliano della Rovere ispiratore dell’impianto agiografico della Pala. In primo piano sulla destra un frate domenicano in ginocchio. La presenza di strutture che ricordano le Tavole Barberini indica in Fra Carnevale il domenicano genuflesso. Perché il frate è in ginocchio visto che la struttura non è una chiesa e non ci sono immagini sacre? Il frate non sta pregando perché la testa è rivolta verso l’alto, in ammirazione dell’uomo nell’oculo. In secondo piano, a destra tra i colonnati, un uomo consulta un libro: l’autore della Pala ha studiato approfonditamente il De Re Aedificatoria di Leon Battista Alberti. Nel secondo ambiente raffigurato nell’incisione viene fatto, in forma criptica, il nome dell’autore della pala. Sulla stessa linea dell’uomo di spalle nell’oculo della navata di sinistra, si trovano, nella navata di destra, tre scene con un piccolo medaglione che divide la prima dalle altre due. Da sinistra: la rappresentazione di uno scultore che sta realizzando in bassorilievo il ritratto di un uomo, il medaglione con il volto di un personaggio, una bottega di orafo con il battiloro al lavoro e da ultimo un pittore che sta realizzando un ritratto. L’uomo del medaglione è l’immagine simbolica dell’artista che era scultore, aveva una bottega di orafo, ed era pittore. L’uomo guarda in alto dove si trova un occhio a ruota di carro simbolo della prospettiva: si tratta di un artista che in tutte le sue attività ha sempre applicato i principi della prospettiva.

Se ora torniamo nella struttura maggiore notiamo che Federico indossa l’elmo; l’artista che ha realizzato la Pala è quindi scultore, orafo, pittore ed ha realizzato l’elmo per Federico: Bramante sta cripticamente reclamando la paternità del Pollaiolo! 3

 

* Interpretazione del disegno di Bramante

Bramante afferma: io sono il grande artista prospettivo perché ho avuto come maestri Antonio del Pollaiolo (la colonna si prolunga in alto fin sotto l’oculo dove è l’uomo di spalle) e Fra Carnevale (l’ombra del frate inginocchiato termina a punta proprio alla base della colonna). Pollaiolo è l’autore della Pala Montefeltro, realizzata in riparazione del sacco di Volterra, mentre Fra Carnevale, suo collaboratore, ha realizzato, su disegno del maestro Pollaiolo, le Tavole Barberini4 che avrebbero dovuto fare da laterali alla Pala Montefeltro.

 

 Fig. 3, Antonio del Pollaiolo. Pala Montefeltro.


Bramante vuole per l’appunto puntualizzare che la Pala Montefeltro è la prova documentale delle consolidate conoscenze di Antonio del Pollaiolo sull’architettura albertiana e al tempo stesso che l’artista fiorentino è proprio quanto cercavano Federico di Montefeltro e Ottaviano Ubaldini per la realizzazione di opere veriste e svincolate da pervasività religiose. Bramante non poteva spingersi oltre ma sapendo dei legami di Antonio del Pollaiolo con Andrea Mantegna, quando lasciò Urbino per il nord-Italia, si recò a Mantova e fece partecipe Mantegna dell’ostilità di Piero della Francesca nei riguardi dell’artista fiorentino. Bramante sapeva bene del temperamento sanguigno di Mantegna e dei suoi stretti legami con Antonio del Pollaiolo per cui lasciava a lui l’adeguata risposta.

 

RISPOSTA

Di fronte alle osservazioni di Bramante, Mantegna non si fece pregare e rispose all’attacco di Piero con l’incisione denominata “La Zuffa degli Dei Marini”.

 

 

Fig. 4, Da Andrea Mantegna; Zuffa degli dei Marini.

 

Mantegna e Antonio del Pollaiolo ebbero un rapporto di reciproca collaborazione che iniziò nella bottega di Francesco Squarcione a Padova. Dopo la morte di Francesco Squarcione, che nella ultima parte della vita aveva ripetutamente tentato di recuperare disegni e dipinti asportati dagli allievi dalla sua bottega, il figlio Bernardino scriveva a Giorgio di Tommaso Sebenico, pittore ed ex-discepolo di Francesco, che tratteneva presso di sé alcuni disegni della bottega di Squarcione tra i quali «unum cartonum cum quibusdam nudis Poleyoli».

La presenza della Battaglia di Nudi nella bottega dello Squarcione testimonia l'influenza che ebbe Antonio del Pollaiolo sulla scuola padovana. Andrea Mantegna, per parte sua, iniziò la sua attività artistica presso quella bottega e fu addirittura adottato dallo Squarcione tanto che esistono riscontri al fatto che si facesse anche chiamare Andrea Squarcione: ne sono prova alcuni documenti riportati da Kristeller nella sua monografia sull'artista. Mantegna fu iscritto alla confraternita dei pittori di Padova con il nome di Andrea Squarcione. Ulisse degli Aleotti dedicò a Mantegna un sonetto titolato Pro Andrea Mantegna pictore dicto Squarzone.

 

 

Fig. 5, Antonio del Pollaiolo; Battaglia di Nudi

 

Nel 1461 un Andrea Squarzoni è nominato come proprietario di un terreno in contrada Santa Lucia a Padova; altri documenti provano che Mantegna abitò in quella zona e nel 1492 vendette un possedimento della stessa contrada.

Nel 1467 Mantegna è a Pisa; da un documento si evince che in quell'anno fu dato un ricevimento «per fare honore Andrea Squarcione Dipintore».5 Nell'inventario mediceo del 1492 una tavoletta, su cui era rappresentata Giuditta, soggetto ricorrente nelle opere di Mantegna, veniva catalogata come opera di Andrea Squarcione. L’opera che testimonia la collaborazione di Mantegna e Pollaiolo è un’incisione su cui altrove si è dissertato con la personale intitolazione “ Orgia e Pentimento”6

 

Fig. 6, Antonio del Pollaiolo e Andrea Mantegna; Incisione Orgia e Pentimento.
In basso a sinistra, particolare.
A destra. particolare del Parato di San Giovanni realizzato su disegno di Antonio del Pollaiolo

 

La scena è singolare e molto più complessa delle interpretazioni frettolosamente proposte in passato. Gli otto uomini danzanti, con campanelli ai polsi e alle caviglie coperte di pampani, al suono di trombetti e dei loro sonagli, si esibiscono in una chiassosa danza carnevalesca. La scena richiama molto da vicino i canti carnascialeschi dei secoli XV-XVI, dei quali Lorenzo de' Medici fu verosimilmente il primo compositore con la Canzona de' confortini, un componimento basato su doppi sensi a sfondo sessuale con inequivocabili riferimenti sia all'amore eterosessuale sia alla sodomia.7

Nell’incisione definita Orgia e Pentimento, la scena si svolge in strada, dove sono sistemati due tavoli (vere e proprie are) di pregiata fattura, giustificati in quel luogo unicamente dall'inserimento in una rappresentazione teatrale. La donna si è vestita come una giovane di alto lignaggio, nello stile di Borgogna, ma i riferimenti al modo di acconciarsi alla fiorentina provano la mascherata carnevalesca, dettata da un plateale movente sessuale: ella ostende con la mano sinistra la zampa di un maiale a testimoniare l'orgia carnevalesca che ha voluto scatenare con gli otto uomini dei quali mostra simbolicamente i trofei fallici, infilzati come salsicce, nel bastone sorretto dalla mano destra e appoggiato alla spalla come per simulare il ritorno di una legionaria da una grande impresa.

L'indispensabile prologo all'orgia è stato il baccanale di cui si trova traccia nei pampani disposti alle caviglie dei danzatori. Lo sguardo della donna non tradisce vanagloria né tracotanza per il fine raggiunto con il travestimento ma, al contrario, mestizia. L'ebbrezza del Carnevale ha scatenato gli istinti repressi di una femmina al tramonto, anzi ormai prossima alle tenebre, ma poi la consapevolezza del proprio stato e l'assenza di un reale appagamento, hanno innescato in lei un senso di profondo pentimento; si spiega, a nostro avviso, in tal modo il suo volto triste in contrasto con l'atteggiamento degli uomini che danzano al suono dei trombetti, gaudenti per la soddisfazione animalesca dei loro istinti.

La paternità di Antonio del Pollaiolo sul disegno originario è ben sostenuta in primis dall’ evidente legame tra i canti carnascialeschi, cui appartiene l'incisione in esame, e i danzanti di Villa della Gallina, che presentano figurazioni spaziali di ispirazione ellenistico-romana, ma nel loro insieme sono da considerare inseriti in una scena teatrale; le figure sembrano direttamente derivate dai cammei medicei e dai sarcofagi tardo-ellenistici ma non si tratta di riproduzioni.

Fig. 7, Antonio del Pollaiolo; Nudi Danzanti.

Antonio del Pollaiolo era fortemente attratto dall'arte antica, la recepiva e la rielaborava in una visione umanizzante della perfezione classica che poneva l'uomo al centro della indagine figurativa, secondo i dettami albertiani e ficiniani.

L'esame stilistico mostra un’ impostazione decisamente pollaiolesca che avvicina l'opera oltre agli affreschi di Villa della Gallina, alla Battaglia dei Nudi, con la quale condivide l'esaltazione della linea operata dal bulino, confermando una collaborazione, probabilmente sviluppatasi a Firenze già nel '66, se non addirittura a Padova negli anni precedenti.

Quanto alla identità dell'incisore rileviamo che la firma "SE" sormontata da un segno sinusoidale corrisponde a Squarcione; come aveva giustamente rilevato Zani "S" ed "E" sono la lettera iniziale e la terminale del nome dell'incisore, mentre la conformazione del segno sovrastante indica, secondo la terminologia paleografica, che tra la lettera "S" e la lettera "E", è presente una R8. Dal punto di vista grafico non vi sono quindi dubbi sul nome Squarcione ma lo stile arcaico dell'artista padovano appare inconciliabile con il movimento e la tridimensionalità delle figure della incisione, la cui collocazione temporale corrisponde alla prima metà degli anni '70, in derivazione da un disegno di un artista che anticipava di molti anni l'evoluzione progressivamente avvenuta nell'arco del secondo Quattrocento. Lo stile dell'incisione ha, per contro, stretti legami con le opere assegnate a Mantegna, che, si è detto, essendo stato adottato dallo Squarcione, si faceva chiamare Squarzone per sua stessa volontà

"SE" è un "unicum" nella storia delle incisioni e d’altra parte due documenti confortano la tesi secondo cui debba essere profondamente rivista l'opera di incisore di Mantegna: 1) il contratto stipulato tra Mantegna e Gian Marco Cavalli il 5 aprile 1475, secondo cui quest'ultimo sarebbe stato l'incisore dei suoi disegni9. 2) La lettera del 19 novembre 1481 con cui Zaccaria Saggi, oratore mantovano presso il Ducato di Milano, esaltava le doti di un giovane incisore milanese propiziandone la chiamata del Marchese Federico Gonzaga a Mantova dove avrebbe potuto mirabilmente dar seguito ai disegni di Mantegna10.

Orgia e Pentimento assume pertanto una straordinaria importanza perché testimonia lo scambio di esperienze realizzate tra Andrea Mantegna e Antonio del Pollaiolo sia nei disegni preparatori per le incisioni sia nella pittura prospettica e tridimensionale.11

Nella Zuffa degli Dei Marini, per altro,l’impostazione scenica, lo sfondo vegetale, la disposizione dei corpi e la resa dei muscoli mostrano uno stretto contatto con la Battaglia di Nudi di Pollaiolo. La Zuffa è da considerare una dura presa di posizione dell'artista veneto in favore del grande fiorentino, rappresentato come Nettuno, re del mare, che è di spalle di fronte allo specchio mentre gli altri Dei marini si azzuffano tra loro, dominati dall'invidia, rappresentata dalla figura allegorica.

E’ da rimarcare l’analoga esaltazione del Pollaiolo da parte di Bramante nell’ Incisione Prevedari ed anche in questo caso il personaggio principale della rappresentazione è voltato di spalle con l'evidente intento di voler celare la sua identità. Ma vi è di più: Bramante inserisce la Pala Montefeltro nell’ Incisione Prevedari con la conchiglia rovesciata dell’abside; Mantegna, nella Zuffa, pone sui fianchi del basamento, dove poggia Nettuno in maniera statuaria, una festonatura che ha all’apice una conchiglia disposta anche in questo caso al rovescio; sono paritetici riferimenti alla Pala Montefeltro.

La Zuffa degli Dei Marini e l’ Incisione Prevedari sono praticamente coeve e ugualmente frutto dell'opera di due diversi artisti, l’autore del disegno originario e incisore. Se la Prevedari porta la scritta 1481, anche la Zuffa degli Dei Marini può essere assimilata a quella data per quanto scrive l’oratore mantovano Saggi al Marchese Federico; riferendo che il giovane aveva realizzato su un disegno di Mantegna una splendida incisione con centauri, faceva evidentemente riferimento alla Zuffa. La notazione permette di fare delle deduzioni significative: La Zuffa degli Dei Marini è stata fatta a Milano esattamente come l’Incisione Prevedari ; la lettera di Saggi,datata novembre 1481 confermando la contemporaneità delle incisioni rende verosimile la tesi che i disegni di Mantegna e Bramante siano stati concordati per esaltare congiuntamente la virtù del grande artista fiorentino.

Nella Zuffa, sul basamento dove poggia il simulacro di Nettuno è disposta un’anfora con sommità coronata per il significato della quale è necessario un richiamo mitologico. Atena, sempre in lotta con Nettuno, ne ebbe la meglio e lo rinchiuse in un’anfora magica. L’anfora, posta nella Zuffa insieme al simolacro del Dio del mare sul piedistallo, sta verosimilmente a significare che questi ne sia fuoriuscito reincarnandosi nel Pollaiolo.


Fig. 8, Da Andrea Mantegna ; Incisione. Zuffa degli Dei Marini. Particolare

Per concludere: maliziose erano state le otto volute dipinte da Piero sui capitelli ionici della Flagellazione; brutale fu la risposta di Mantegna con la Zuffa che bollava come mossi dall’invidia gli dei marini, in realtà gli artisti del tempo e specificatamente di Piero della Francesca, critici nei riguardi di Antonio del Pollaiolo, perché offuscati dalla sua grandezza.

 

Didascalie delle immagini

Fig. 1, Piero della Francesca; Flagellazione. Urbino. Palazzo Ducale

Fig. 2, Bernardo Prevedari; Incisione da un disegno di Donato Bramante. Raccolta Bertarelli. Palazzo Sforzesco. Milano. In basso Particolari dell’Incisione. A sinistra l’abside con conchiglia rovesciata come nella Pala Montefeltro. A sinistra medaglione con l’immagine di Federico di Montefeltro che indossa l’elmo realizzato dal Pollaiolo

Fig. 3, Antonio del Pollaiolo. Pala Montefeltro. Pinacoteca di Brera.Milano

Fig. 4, Da Andrea Mantegna; Zuffa degli dei Marini. Collezioni del Duca di Devonshire. Chatsworth. Regno Unito

Fig. 5, Antonio del Pollaiolo; Battaglia di Nudi. Gabinetto Disegni e Stampe. Galleria degli Uffizi. Firenze

Fig. 6, Antonio del Pollaiolo e Andrea Mantegna; Incisione Orgia e Pentimento. Gabinetto Disegni e Stampe Galleria degli Uffizi. Firenze. In basso a sinistra Particolare, A destra. particolare del Parato di San Giovanni realizzato su disegno di Antonio del Pollaiolo

Fig. 7, Antonio del Pollaiolo; Nudi Danzanti. Villa della Gallina. Arcetri. Firenze

Fig. 8, Da Andrea Mantegna ; Incisione. Zuffa degli Dei Marini. Particolare

 

Note con rimando automatico al testo

1 Così come scritto nel Cortile d’Onore del Palazzo Ducale di Urbino, Federico assumeva l’appellativo di imperator secondo il suo significato originario di "comandante supremo", titolo con cui i soldati chiamavano il loro generale dopo una vittoria sul campo. Augusto ottenne dal Senato di potersi fregiare del titolo di imperatore a vita e di poter trasmettere il privilegio alla sua discendenza. Da quel momento imperator si identificò con il termine di princeps.

2 E’ opportuno precisare che nel Quattrocento il diritto al saccheggio era una spettanza delle truppe che avevano posto in assedio e conquistato una città.

3 I doni commissionati dalla Repubblica Fiorentina ad Antonio del Pollaiolo per il Conte di Urbino dopo l’Impresa di Volterra furono un elmo in argento e smalti in cui era raffigurato Ercole che spennava il Grifone Volterrano, un bacile e alcune coppe d’argento della Cappella del Palazzo della Signoria, realizzati anni prima da Antonio e dalla sua bottega, che vennero immediatamente rimpiazzati con un nuovo ordine all’artista. ASF, Provvisioni Registri 163 (1472), c. 83r-86v.

4 La struttura architettonica della incisione Prevedari ricorda molto da vicino Le Tavole Barberini negli archivolti e nei colonnati.

5 P. KRISTELLER, Andrea Mantegna, London, Longmans Green and Co., 1931, p. 20.

6 M.Giontella; Antonio del Pollaiolo e Andrea Mantegna. Incisione Orgia e Pentimento, in: Antonio del Pollaiolo il Maestro dei Maestri. Polistampa 2016. pp. 117-124

7 Per una lettura interpretativa dei Canti Carnascialeschi vedi R. BRUSCAGLI, Trionfi e canti carnascialeschi del Rinascimento, Roma, Salerno, 1986, Vol. 1-2.

8 B.BISCHOFF, Paleografia latina: antichità e Medioevo, trad. it., Padova, Antenore, 1992, p. 235.

9 ASM, Notarile, Galeazzo Giudici,76, alla data.

10 “Certo,signore mio, costui farà cose mirabile s’el haverà chi lo facci fare, et ha questa vertù anchora, ch’el lavora assay né vedde cosa ch’el non sappi fare: ha fato d’intaglio una di quelle cornise de Andrea Mantegna che è fata de centauri, che è bellissima cosa, e così faria sotto l’inventione e dissegni de Andrea tuto quello gli fosse posto inanzi, benché lui habbi bonissimo dissegno da sì e buona fantasia.E’-mmi parso de dirne qualche cosa con vostra signoria a la quale forsi verria qualche voglia di haverlo.” G. Agosti; Su Mantegna. Milano.Feltrinelli 2005.p.376

11 A. CANOVA, Mantegna ha davvero inciso?, «Grafica D'Arte», XII, Luglio settembre 2001, p. 3.    

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

abbiamo aggiornato l'informativa sui cookie