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Fogli e Parole d'Arte

Rivista d'arte on line, ha ricevuto il codice ISSN (International Standard Serial Number)

1973-2635
il 23 ottobre 2007.

Fogli e Parole d'Arte è diretta da
Andrea Bonavoglia (Vitorchiano)
e distribuita on line dalla società Ergonet di Montefiascone (Vt).

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documenta fifteen

Il Museo Fridericianum a Kassel

Che sia in corso una trasformazione epocale nella produzione artistica del XXI secolo possiamo immaginarlo e/o intuirlo grazie alla più importante delle rassegne internazionali, la documenta di Kassel, giunta alla 15ma edizione. Ogni cinque anni documenta  ci propone una finestra sul futuro, quasi sempre seguita, inseguita e imitata dal resto degli operatori. Per questa edizione, il titolo significativo scelto dai curatori è documenta fifteen, con un evidente accento sull’uso dell’inglese come lingua di scambio internazionale. Va poi aggiunto che, fortuitamente, quella di Kassel è tra le poche iniziative al mondo che non hanno subito ritardi causati dalla pandemia e si svolge quindi regolarmente per 100 giorni dal 18 giugno al 25 settembre del 2022. La curatela, ovvero il potere di creare la mostra a propria somiglianza, è stata assegnata sorprendentemente dagli amministratori di Kassel a un collettivo indonesiano, il ruangrupa, detto anche ruru, che dal 2019 al 2022 ha potuto lavorare con il notevole grado di autonomia previsto. Il sito web di riferimento è molto ben fatto e completo.

La prima cosa di cui stupirsi a Kassel nel 2022 è che con scarse eccezioni nessuno degli artisti presentato è famoso, e ben pochi sono occidentali. La seconda cosa è che in realtà sono presenti più collettivi che artisti singoli. La terza è che gli spazi destinati al pubblico, vuoi per riposarsi vuoi per rifocillarsi vuoi per intrattenersi, sembrano quasi in maggior numero degli spazi espositivi. Decisamente tre cose inaspettate e sorprendenti in qualunque mostra europea. Detto questo, quali sono le basi del lavoro di ruangrupa?

A leggere la guida ufficiale e le recensioni di chi è già stato qui (pochi come sempre dalla provincialissima Italia), la chiave di tutto sta nella parola indonesiana Lumbung, che effettivamente ritorna ovunque e fa da perno alla rassegna. Gli artisti presenti sono infatti chiamati lumbung members, in tutto 14, invitati direttamente dai curatori,  e lumbung artists, altri 53, invitati da uno dei membri. Lumbung, leggiamo nei comunicati, vuol dire in pratica deposito del riso ma, se si cerca di capire bene, significa soprattutto mettere in comune risorse, con un accento particolare sull’idea di venire incontro alle necessità di tutti. Potrei tradurlo liberamente come preferisco anche tradurre ubuntu, il termine africano scelto dai programmatori del sistema operativo libertario rivale di Windows e Mac-OS: solidarietà.

Solidarietà, ovvero puro socialismo? Sicuramente sì, e in una chiave quasi ignota in occidente, laddove i socialisti sono stati soprattutto intesi come una storica fazione politica in lotta contro la fazione dominante capitalista. Qui si parla invece essenzialmente di collettività, di reciprocità, di equa distribuzione e di sostenibilità. Nell’Handbook che fa da piccolo catalogo della rassegna, ruangrupa spiega dalla prima pagina che i valori del Lumbung sono: generosità, humor, ancoraggio locale, indipendenza, rigenerazione, trasparenza e sufficienza.

E’ chiaro che questo è un discorso di sinistra (se la parola ha ancora un senso determinato) ed è chiaro soprattutto che è un discorso spiacevole per i conservatori, per i liberali, insomma per la destra (se la parola ha ancora un senso determinato). Non a caso, in Germania – dove documenta è un evento di rilievo a tutti gli effetti – alcuni giornali conservatori si sono scagliati contro ruangrupa e hanno scovato aspetti discutibili in diverse opere presentate prima dell’apertura della rassegna, in particolare per contenuti antisemiti. Viene da sorridere, dopo aver visitato documenta fifteen, perché gli attacchi al razzismo dei bianchi sono tantissimi e non sono stati oggetto di scandalo; gli attacchi ai regimi dittatoriali sono tantissimi e non sono stati oggetto di scandalo; ma la presenza di artisti di Gaza prima e gli attacchi al Mossad da parte del collettivo indonesiano Taring Padi poi, sono stati stigmatizzati al punto da far ritirare una delle opere. Potenza dei media.


Handbook e salame targati documenta fifteen

La rassegna si dispiega nei consueti luoghi del centro città (Mitte, zona gialla nelle cartine di orientamento per i visitatori), cui si aggiungono l’area orientale ex-industriale (Bettenhausen, zona viola), i quartieri settentrionali (Nordstadt, zona rossa) e il percorso del fiume cittadino (Fulda, zona verde). In totale ci sono 32 spazi, che nessun visitatore probabilmente è in grado di visitare al completo a meno di non dedicare più di due giorni alla visita. Si noterà che i colori scelti, presenti anche nei manifesti e nelle indicazioni, tendono a un (dis)accordo molto orientale e ben poco occidentale: in altre parole, stridono ai nostri occhi, ma hanno una bella efficacia e al termine della visita appaiono meno stravaganti.

Alla mia quarta presenza a Kassel, l’idea - non mia - di usare una bicicletta elettrica è giunta come la perfetta soluzione al problema degli spostamenti, peraltro consentiti da una buona rete dei trasporti pubblici (gratuiti per chi ha il biglietto di documenta). All’altro problema pratico delle pause e dei rifornimenti hanno invece pensato i curatori, con una impressionante quantità di sedie e spazi allestiti nelle mostre.

Si inizia sempre con l’edificio più importante di documenta, il neoclassico museo Fridericianum, che si affaccia sulla grande Friedrichsplatz e di fatto rappresenta il cuore della città stessa; accanto al museo ci sono la documenta Halle, espressamente dedicata alla rassegna, il teatro cittadino e il museo di scienze naturali. Escludendo il teatro, sono tutte sedi storiche di documenta, e in questa edizione si distinguono anche per le modifiche agli ingressi. Le colonne del Fridericianum sono state coperte dal romeno Dan Perjovschi di nero con scritte bianche, che riportano slogan politici, mentre sul cornicione è stato inserito dall’australiano Richard Bell un enorme segnale luminoso digitale che conta incessantemente – secondo una logica non molto chiara – il denaro che gli occidentali hanno sottratto agli aborigeni australiani dal 1901, quando li hanno espropriati delle loro terre. Al centro della piazza c’è anche una tenda dove sono proiettate immagini e filmati di protesta sul tema del furto della terra da parte dei colonizzatori. L’ingresso della documenta Halle è invece trasformato dai kenioti Wajukuu Art Project in un cunicolo tra lamiere, a imitazione - si legge - degli slum di Nairobi.

 

Laboratori e spazi comuni nel Fridericianum

 

Le opere d’arte in questi edifici, se si tralasciano i numerosi spazi dedicati ai visitatori, compresi i bambini che trovano giocattoli e aree giochi tutte per loro, sono quasi convenzionali confrontate con il senso comune della rassegna. Ci sono lungo la grande scala centrale del Fridericianum alcuni quadri che ribadiscono le proteste degli sfruttati contro gli sfruttatori, e molti filmati rendono ancora più realistici questi temi, ma nel complesso l’idea artistica più interessante (qui si può certamente notare che i miei ragionamenti sono antiquati rispetto alla concezione proposta da ruangrupa) si trova in un singolare negozio disposto nella documenta halle, opera del gruppo bengalese Britto Arts Trust. Con espositori esterni e spazi di vendita interni, il negozio trasforma la tipica merce alimentare in mostruosi oggetti di bronzo, pistole, bombe a mano, fucili, ibridati con melanzane, banane, verdura. E aggiunge uno scaffale pop con le scatole di minestra rese celebri da Warhol.

   

  

 Opere nella documenta Halle

 

Ma documenta fifteen è quindi una mostra politica? Lo è nel senso più pieno e più classico del termine, perché prende una posizione, la segue con coerenza, la analizza, e giustamente cerca di aprire gli occhi ai visitatori. Ma allora documenta fifteen è ancora una mostra d’arte? Lo è, nei limiti del tentativo di dare un nuovo senso alla parola arte. Ruangrupa ci dice che arte vuol dire libertà, generosità, indipendenza, rigenerazione. E ci dice che l’arte deve essere esplicita, chiara, diretta.

Se allora guardiamo ai troppi cerebralismi e alle colossali mistificazioni che, negli ultimi 50 anni perlomeno, hanno invaso tante gallerie d’arte in occidente, dovremo ringraziare ruangrupa per averci dato gli strumenti con cui sotterrare tanta ricerca artistica priva di basi e ricca solo di chiacchiere. Di certo a Kassel le immagini esposte sono figure prese dalla realtà, gli oggetti sono riconoscibili, i significati molto spesso tanto elementari quanto efficaci. Usando riferimenti storici, posso richiamarmi a un realismo espressionista, protagonista indiscusso, e ad un’idea famigliare di astrazione rintracciabile nelle decorazioni; e si potrebbe forse tracciare un parallelo interessante tra le volontà collettive di ruangrupa, che vuole letteralmente trasformare i visitatori/ospiti nei protagonisti/padroni-di-casa, e il situazionismo di lontana memoria. 

Kassel è città collinare, con la Fulda che scorre in basso, creando notevoli salti di quota e aree verdi terrazzate; il percorso in bicicletta a pedalata assistita è piacevole e in realtà nel mio caso è avvenuto prima delle obbligatorie visite nel centro città.

Sul lato verso il fiume della documenta Halle c’è una serie di eleganti padiglioni di bambù, che aprono il percorso a scendere verso la Fulda, dove è ancora presente lo spettacolare piccone di Claes Oldenburg, nato per documenta 7. In una piega del fiume ci sono i resti di una torre di guardia detta la Rondell; qui Nguyen TrinhThi ci costringe a entrare in una cella rotonda, una camera di tortura, buia e umida, nella quale suoni e ombre di piante forestali ricreano la cupa atmosfera di un carcere del paese dell’artista, il Vietnam.

 

    

I padiglioni di bambù, la cella nella Rondell e il piccone di Oldenburg

 

A est la città, che ha un passato di piccola capitale e gode di una posizione geografica centralissima e nevralgica in Germania, si era dotata di grandi strutture industriali che lentamente sono state dismesse. Nella zona di Bettenhausen ruangrupa ha scovato per il suo progetto spazi suggestivi, soprattutto grandi e solcati dal tempo. Uno di questi, la Sandershaus, fabbrica alimentare, appare in parte diruta e addirittura predisposta allo stato di rifugio per homeless, con un ostello che dal 2017 è destinato a tutti; qui i gruppi argentini dei Serigrafistas Queer e dei Sa Sa Art Projects hanno aggiunto attività di propaganda e di sostegno. Si ha la sensazione che lo spunto sia quello del riutilizzo se non dell’occupazione politica; sicuramente, c’è in ruangrupa, come ho sottolineato, una coerenza precisa, che tuttavia non scade mai in ossessione o fanatismo, a conferma di una esemplare maturità raggiunta nel tempo.



L'area della Sandershaus

 

Sempre in zona, strutture ex-industriali ribattezzate area Hübner ospitano collettivi che si propongono, mi si scuserà la battuta, come dei vu’ cumprà, tra tappeti stesi e appesi, sedili estemporanei per vedere filmati e musica africana improvvisata. Ma ci sono anche cinesi e danesi che girano telefilm in diretta. Oggetti di recupero strutturano qui e là sculture colorate o pareti provvisorie, creando nelle grandi sale comunicanti l’impressione generale di una fiera o di un mercato.  

 

  

L'area Hübner

 

Ancora, in un incrocio stradale che ha ricevuto il nome di Platz der Deutschen Einheit (Piazza dell’unità tedesca)  il sottopasso pedonale, come sempre decorato dai graffitari locali, privi di gusto e di talento peraltro, ha ricevuto l’attenzione del collettivo danese Trampoline House, che vi ha collocato registratori alle pareti, creando una singolare installazione sonora di voci di profughi che raccontano le loro drammatiche esperienze. 

Non lontana, la Hallenbad Ost, ovvero una ex-piscina coperta, ospita il gruppo più citato, Taring Padi che, a giudicare dalla foto nell’handbook, è composto oggi da almeno 20 persone, in gran parte giovani studenti. Sono gli stessi del manifesto rimosso per antisemitismo, sono indonesiani, lavorano dal 1998 e si sono specializzati nel creare pannelli, striscioni, figure di legno o cartone, da usare in cortei, concerti, comizi, fiere. Nell’edificio della piscina e nel giardino hanno esposto decine e decine di oggetti, basati su quella che è l’essenza di documenta fifteen, l’esplicita dichiarazione di rivolta contro ogni dittatura, con colori accesi e immagini dirette, spesso quasi ingenue o infantili nella loro semplicità.


Hallenbad Ost

 

Una chiesa sconsacrata, St. Kunigundis, ospita la selezione artistica più memorabile, a mio parere, tra quelle che ho visto nella rassegna, opere del gruppo haitiano Atis Rezistans, integrato con il gruppo Ghetto biennale. Qui qualche benpensante poteva trovare materiale per scandalizzarsi assai più dell’attacco al Mossad, con statue a grandezza naturale fatte di materiali di scarto che mescolano voodoo e culti cristiani, tra pezzi di metallo e ossa vere, simulando e imitando forme militari e l’apparato sacro di una chiesa cattolica. Le opere sono sormontate da un controsoffitto, progettato dall’inglese Vivian Chan insieme al collettivo, che ripete la caotica rete urbana della capitale di Haiti, Port-au-prince.

  

La chiesa di St. Kunigundis

 

Risalendo in città, dove appaiono qui e là i manifesti colorati di documenta, un albergo dismesso (che durante la rassegna ospita parecchi artisti), l’Hotel Hessenland, ha offerto la sua sala da ballo al gruppo sudafricano Madeyoulook, che ha trasformato, di nuovo al buio, il pavimento in una specie di plastico territoriale, aggiungendovi fotografie e suoni.   

Vicino al Fridericianum c’è la segreteria-biglietteria-libreria del ruangrupa, ospitata in un palazzo ribattezzato ruruhaus. Tra i gadget in vendita, ci sono magliette e libri, ma anche caffè e salame! Al piano sotterraneo, il gruppo berlinese ZK/U propone una serie di monitor e di pannelli dedicati agli alveari e quindi alla vita sociale degli insetti, forse con una allusione agli insediamenti umani nel terzo mondo, dove la solidarietà è di casa. Il gruppo, ci viene detto, ha trasportato una barca da Berlino a Kassel usando la fitta rete di canali navigabili tedeschi; la barca è fatta con il tetto di legno del loro laboratorio nella capitale, rovesciato. La barca poi dovrebbe ritrasformarsi nel tetto di una nuova sede comunitaria a Kassel. A proposito di riciclo…    

I fratelli Grimm, gloria nazionale non solo come narratori di fiabe ma soprattutto per la fondazione del primo grande dizionario della lingua tedesca, vissero e lavorarono a Kassel, dove c’è anche la loro casa. Con una probabile intenzione di richiamo turistico, la città ha deciso di costruire un edificio nuovo e spettacolare dedicandolo ai due celebri fratelli, e lo ha chiamato Grimmwelt (il mondo dei Grimm). Qui vale la pena fare una visita, non solo per la presenza di qualche opera non eccelsa di documenta fifteen, ma per la terrazza dell’edificio che consente di ammirare un panorama spettacolare a 360 gradi.


Il tetto del Grimmwelt

C’è anche una certa volontà di provocazione nelle scelte di ruangrupa. Non con insistenza, il collettivo ricorda il passato di Kassel sede di industrie belliche naziste, o la scarsa ospitalità verso i profughi, o la scarsa attenzione alle problematiche queer. Si tratta in questi casi di frecciate alle amministrazioni e ai cittadini tedeschi, e si direbbe che ruangrupa desideri che questa edizione di documenta venga ricordata per le scelte di integrazione e sostenibilità più che per quelle estetiche.

La sede denominata WH22 (dall’indirizzo sulla Werner-Hilpert-Strasse) è forse lo spazio più sorprendente, una vineria con locale notturno. Si trova qui la produzione del gruppo di Gaza, ma ci sono anche Alice Yard di Trinidad e Tobago, i marocchini LE18, i vietnamiti Nhà Sàn, e infine il collettivo indiano Party Office. Party Office utilizza la grande cantina del locale, di nuovo buia e arredata come un locale estemporaneo, nel nome del Queer Time. Divisa tra spazi di lettura e intrattenimento, la cantina – che ha una struttura architettonica industriale di una notevole eleganza – è aperta anche di sera per ballare, fare feste, giocare, riposarsi, incontrarsi e riunirsi, soprattutto per chi appartiene alle comunità LGBTQ.


La cantina di WH22

Non c’è dubbio, il collettivo indonesiano ha messo nella grande mostra un impegno notevolissimo e una serie di scelte ben definite ed esplicite che possono essere discutibili, ma che per una volta non lasciano spazio ad equivoci. L’arte e la ricerca estetica non possono fare a meno del sociale, dell’ambiente, dello scambio, dell’integrazione, e se da un lato il globalismo ci uniforma e ci connette, dall’altro i localismi non possono scomparire e soprattutto non devono essere colonizzati dai più ricchi. In uno spirito che ricorda quello in voga in Occidente qualche decina di anni fa, l’edizione 2022 di documenta a Kassel lancia un messaggio, una parola d’ordine: Lumbung. 

 


Riferimenti online per le precedenti edizioni di documenta su FePdA:

documenta 14
documenta 13
documenta 12
documenta 1-12

 

 

 

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