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Fogli e Parole d'Arte

Rivista d'arte on line, ha ricevuto il codice ISSN (International Standard Serial Number)

1973-2635
il 23 ottobre 2007.

Fogli e Parole d'Arte è diretta da
Andrea Bonavoglia (Vitorchiano)
e distribuita on line dalla società Ergonet di Montefiascone (Vt).

Fogli e Parole d'Arte

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Testuali parole

Se l’autore invisibile diventa altrimenti visibile

Ovvero, quando la presenza dell’autore si manifesta grazie agli sguardi rivolti all'esterno dell'opera.

  

Non dirò ciò che ho fatto
ma ciò che sono
.
Sant’Agostino

 

Nel 1436 Leon Battista Alberti pubblica il “De pictura”. Di quel testo capitale per la storia dell’arte, un passo in particolare resiste all’usura del tempo e mantiene inalterato il suo valore descrittivo: «Et piacemi sia nella storia chi admonisca et insegni [il corsivo è nostro, n.d.r.] ad noi quello che ivi si facci, o chiami con la mano a vedere o con viso cruccioso et con li occhi turbati minacci, che niuno verso lor vada; o dimostri qualche pericolo o cosa ivi meravigliosa»1. La prescrizione si rivela preziosa, spiega molto di quanto appare e accade in un’opera pittorica, se figurativa, ed ha l’innegabile pregio di richiamare l’azione scenica, il teatro, e quindi di utilizzare a mo’ di spiegazione un’azione plateale assai comprensibile agli spettatori del ‘400 (nonché ai successivi). Inoltre sembra, al di là della sua stringata formulazione, ben sintetizzare il pensiero dell’autore: «nel trattato di Leon Battista Alberti sulla pittura è espressa in fondo un’unica norma estetica: si tratta di rappresentare una narrazione o scena pittorica (historia) nella quale, come in teatro, ogni figura ricopre un ruolo e coinvolge lo spettatore nella propria emotività, come fa l’attore con il pubblico. Il punto focale si sposta dal soggetto (ossia da cosa l’immagine racconta) alla sua messa in scena (a come la racconta)»2. Difficile condividere in toto l'affermazione sull'“unica norma estetica” nel trattato dell'Alberti, però è innegabile il fatto che nel corso del tempo questa indicazione sia stata assunta e utilizzata in ambito interpretativo come si fa con una buona spiegazione che ha il pregio della univocità e della semplicità.

Ma se così non fosse o, perlomeno, non solo così, e fosse possibile contemplare anche un altro aspetto? E cioè, se la figura dell’ammonitore (il festaiuolo3nelle rappresentazioni teatrali), o di altre figure assimilabili, fosse stata usata dagli artisti per implicare anche un altro protagonista di primaria grandezza (oltre allo spettatore, l’esplicito obiettivo della prescrizione albertiana), seppur invisibile agli occhi e – per certi aspetti – anche alla cultura dell’epoca?

Il percorso necessario all’artista per prendere piena coscienza di sé si è rivelato lungo e non sempre lineare nel corso del tempo (basti pensare alla ricorrente guerra “fratricida” innescata dal paragone fra le arti), e a questa istanza sembra aver contribuito, dal punto di vista visivo ma non solo, il significativo sviluppo della pratica dell’autoritratto nel Quattrocento e in modo particolare nel Cinquecento. Però con un limite significativo, ben descritto da Édouard Pommier: «Nel Cinquecento l’autoritratto continua a portare avanti una riflessione sulla personalità fisica e morale e sulla condizione sociale e culturale del suo autore. Ma a che pubblico può rivolgersi al di là della cerchia dei parenti, degli amici o dei discepoli del diretto interessato? L’autoritratto parla, ma forse parla nel vuoto»4. Certo, ritraendosi l’artista raggiunge lo scopo di dare visibilità e dignità alla propria persona, esibendo il proprio viso dà volto alle ambizioni e alle istanze morali autocelebrandosi con un ‘egli’, e così facendo afferma la propria raggiunta nobiltà; ma, in definitiva, lo fa per sé, per compiacere il proprio committente esplicito, e cioè se stesso.

D’altra parte l’artista aveva già dovuto misurarsi nel tradizionale e annoso dibattito sulla superiorità delle arti liberali rispetto a quelle meccaniche, e quindi confrontarsi con il primato delle arti umanistiche5. Un lungo cammino e un lungo cimento, insomma; e l’autoritratto sembra un punto d’arrivo, la giusta soluzione formale per compensare l'artista, almeno in parte, delle tante fatiche e umiliazioni.

La stessa ricerca di compensazione che, evidentemente, già induceva l’artista ad autoritrarsi – fin dai tempi dell’arte classica greca – in vari ruoli e vesti6(con un procedimento simile a una effrazione) all’interno di opere gremite di personaggi. Un’autoaffermazione in uno spazio pubblico anticipatoria del riconoscimento sociale vero e proprio, ancora di là da venire. Benozzo Gozzoli, a scanso di equivoci, si spingerà nella Cavalcata dei Magi (1460) a scrivere il proprio nome sul bordo del copricapo indossato nell’affresco [fig. 1].

Fig. 1

Però, e per il momento, «questi artisti restano formalmente nell’ambito della missione che è stata loro affidata. Mantengono un legame con lo spazio della scena che sono stati incaricati di dipingere» (ancora il Pommier). Al dunque confinati nel ristretto spazio della rappresentazione pittorica e sempre legati alla precipua tecnica dell’attività praticata. Orgogliosi e scalpitanti quindi, come dimostra il loro esibirsi, eppure ancora ligi all’incarico.

Forse. O forse non solo, e la fuga dallo spazio ristretto era già in atto, messa in pratica sfruttando paradossalmente l’invisibilità e le opportunità offerte dallo spazio 'reale' al di fuori dall’opera. Una fuga sapientemente congegnata sempre grazie alla loro maestria (comunque destinata col passare del tempo a far rendere loro giustizia). 

Un modo di dire, che diventa un modo di pensare giunto fino a noi, conosce una grande fortuna nella Firenze del ‘400: “ogni dipintore dipinge sé”. La frase, attribuita nel significato al Brunelleschi ma formalizzata, stando al Poliziano, da Cosimo il Vecchio, si rivela particolarmente felice perché, «au momente même où les peintres luttaient pour leur reconnaissance sociale, elle supposait une relation de filiation inaliénable entre l’artiste et sa création»7.

Apparentemente la propria effige riprodotta all’interno dell’opera, o la propria firma apposta sull’opera, oppure la compresenza di entrambe, sono elementi sufficienti per fornire inequivocabili indicazioni sulla paternità dell’opera e, di conseguenza, sull’esistenza di un artefice. Ma l’artista sembrerebbe aver escogitato anche altre soluzioni per “dipingere sé”, o perlomeno sembrerebbe di poter dire che è stata messa a punto almeno un’altra strategia enunciativa8 per comunicare la propria presenza, seppur in assenza della propria immagine tradizionalmente intesa.

Si è vista l’importanza attribuita dall’Alberti al personaggio che dall’interno svolge il compito di implicare lo spettatore all’esterno. Ma, in definitiva, siamo nel novero dei movimenti deittici volti a segnalare un percorso narrativo “visibile”, ed esclusivamente fruibile all’interno della raffigurazione nella quale l’ammonitore è un figurante. Osservando alcune opere, invece, si ha netta la sensazione che l’artista possa aver fatto tesoro delle leggi della prospettiva lineare (sempre albertiana) e di un altro senso della parola “figura”, un senso niente affatto dimenticato nel Quattrocento e rintracciabile, a esempio, in Giovanni da Genova (predicatore domenicano autore di un famoso dizionario, il Catholicon) secondo il quale: «figurare, spiegava, consiste nel “trasporre il senso in un’altra figura”. Dar figura a qualche cosa, secondo quell’accezione, non significava affatto rendere l’aspetto di quella cosa; al contrario, significa darle un altro aspetto, cambiarne la visibilità, introdurvi l’eterogeneità, l’alterità. Insomma, raffigurare una cosa equivale a significarla mediante qualcos’altro che non è il suo aspetto»9. In altri termini, si ha la sensazione che alcuni artisti possano aver usato una figura all’interno dell’opera per fare certamente riferimento all’esterno, grazie a gesti e soprattutto a sguardi là rivolti, ma non solo per indurre lo spettatore ad andare all’interno bensì, e qui sta la differenza, anche per attirare l’attenzione sullo spazio all'esterno dell'opera, per indurre a prestare la giusta attenzione a quel vuoto-luogo occupato e abitato, prima di chiunque altro, dall'artista stesso.

Per riuscire a segnalare sé, e quindi esserci pur rimanendo a tutti gli effetti non visibile, all’artista era però necessaria una riformulazione in chiave linguistica del sistema della rappresentazione, come ben sottolineato da Omar Calabrese a proposito dell’invisibilità intesa come: «ostacolo tecnico, che diventa sfida estetica; ostacolo tecnico che si trasforma anche in sfida linguistica. Infatti, lungi dall’essere inesprimibile, ogni barriera diventa una nuova frontiera linguistica, puntualmente superata per mezzo del rinnovamento del sistema dell’espressione. [...] l’invisibile - limite “naturale” della rappresentazione visiva - non rimane affatto indicibile, ma porta a ricomporre tutto il sistema della rappresentazione pittorica»10. Nel caso specifico si direbbe essersi resa necessaria la messa a punto di una soluzione che rivelasse l’invisibile per mezzo di uno sguardo rivolto da una figura di secondo piano (quando minore se non minima) all’esterno dell’opera e in una direzione precisa, e che svelasse al contempo quanto di “costruito” e riflessivo, di strategico11, vi sia nella realizzazione di un’opera pittorica. Senza, però, intaccare troppo in profondità le convenzioni tipiche dell’opera stessa e la conseguente relazione con il fruitore. Pena l’incomprensibilità e il conseguente rifiuto da parte del pubblico o del committente.

In tal senso vi è una posizione originaria e generativa dell’opera nello spazio all’esterno del dipinto, invisibile perciò agli occhi e spesso al pensiero di chi guarda. Quella posizione viene occupata da una figura fondamentale: quella demiurgica dall’artista al lavoro12, e ciononostante data per scontata e perciò ignorata. Normalmente, infatti, tale presenza non entra concretamente nell’esperienza di chi fruisce un’opera, a maggior ragione se l'opera è impegnata a riprodurre in modo realistico o a illustrare episodi edificanti. Aspetto che sembra suggerire anche Mattia de Bernardi quando scrive: «siamo perfettamente in grado di renderci conto delle caratteristiche grafiche più sottili di un testo scritto, ma spesso lo leggiamo facendo caso solo al contenuto che veicola; volendo si può sottoporre una fotografia su un giornale ad analisi molto complesse del suo piano dell’espressione, ma spesso tutto ciò che ci interessa è ciò che essa raffigura; i trompe l’oeil funzionano precisamente giocando sulla difficoltà di passare dall’oggetto rappresentato, realistico ma non presente, al mezzo della sua rappresentazione, presente ma difficilmente rinvenibile».13

Fig. 2

Questo, almeno, fino a quando non accade qualcosa in grado di modificare la situazione e di accendere spie. Una delle accensioni possibili è ben descritta dalla lettura che Claude Lévi-Strauss fa di un particolare dell’Olympia (1863) di Manet [Fig. 2]: «il gatto scopre qualcosa d’inusitato che lo spaventa o lo irrita. Stando di fronte, il motivo di questo non può essere che il pittore stesso al cavalletto, di faccia alla modella. Intermediario il gatto, Manet, volutamente o no, si fa, nel suo stesso quadro, presente»14. Si entra così in contatto, secondo Lévi-Strauss, con un particolare ammonitore piegato stavolta agli scopi personali dell’artista e non a quelli della storia illustrata. E stando a questo primo esempio, risulterebbero massimamente funzionali allo scopo le figure minime, certamente non protagoniste all'interno dell'opera, figure di contorno al limite del riempitivo, in tal senso comunque coerenti con le indicazioni fornite dall'Alberti e con le caratteristiche deducibili dalle messe in scena teatrali. Vediamo.

Procedendo a ritroso nel tempo s’incontra un quadro di Velázquez, Cristo in casa di Marta e Maria [Fig. 3], tuttora foriero di discussioni e osservazioni. Il quadro presenta una costruzione complessa e ambigua che trova riscontro nelle numerose interpretazioni escogitate per spiegarlo. Infatti, non solo l’opera sembra accostare e far convivere due episodi avvenuti in momenti temporalmente differenti (il che non desta stupori), ma lascia aperta la questione sulla effettiva natura della piccola scena alle spalle delle due donne in primo piano. In quella scena sul fondo si può vedere un quadro nel quadro o uno specchio che rimanda un’azione in corso. Così come vi si può leggere un’apertura nel muro (una sorta di passavivande) grazie alla quale assistere a quanto avviene in un altro ambiente della casa. Queste due ultime ipotesi, tuttavia, renderebbe problematico spiegare la simultanea presenza di Marta in cucina (e in primo piano) e nella stanza attigua. Naturalmente il problema specifico svanirebbe se le due signore anziane presenti fossero due persone distinte semplicemente simili tra loro.

Fig. 3

Fig. 4

Comunque, e indipendentemente dalle possibili interpretazioni, sembra di scorgere almeno un significato preciso, affidato allo sguardo della giovane donna intenta a pestare nel mortaio. Perché, se la donna anziana in primo piano indica il supposto “quadretto” alle loro spalle, è lei a guardare fuori del quadro, è cioè la domestica a fissare colui a cui tutto andrebbe ricondotto: l’artista. In questa opera, al dunque, si direbbe proprio di poter scorgere l’orgoglioso atto di presenza dell’artista in una precisa forma di autodenuncia: “Non mi cercare dove guardi ma lì dove sei, perché non solo sono stato qui (come scrisse Van Eyck all'interno della sua opera I coniugi Arnolfini: Johannes de Eyck fuit hic” [Fig. 4]), ma quanto stai osservando lo devi a me e alla mia perizia”.

Straordinarie risultano. per il nostro discorso, due opere di Jacopo da Bassano, entrambe sono Adorazione dei pastori, e in entrambe è affascinante osservare all'opera i differenti ammonitori.

Fig. 5

Fig. 6

Nella prima realizzata tra il 1565 e il 1570 [fig. 5], San Giuseppe, anziano come vuole la tradizione, non solo è seduto sulla destra discosto dalla scena principale, ed è quindi palesemente figura marginale che rivela la propria “estraneità” all'evento a partire dalla postura rilassata, ma è anche caratterizzato dall'espressione del volto (quasi infastidito in verità) con tanto di sopracciglio inarcato a marcare l'occhio che, rivolto verso di noi, infrange la rigidità della posa di profilo. Nell'altra [fig. 6], datata 1568, il ruolo è invece affidato a una remissiva pecora collocata esattamente tra un pastore adorante e il bambinello, di lei si scorgono significativi il muso e lo sguardo, e quest'ultimo è nuovamente rivolto all'osservatore. A farle da ideale pendant animale, un cane: anche se la costruzione dell'opera e la compresenza dei due animali porterebbero a dire che la pecora è l'ammonitore classico, e assolve il compito di richiamare l'attenzione del pubblico sul focus della scena, mentre il cane sul lato destro, in posizione maggiormente defilata ed estrema, parrebbe l'ammonitore incaricato di svolgere la funzione alternativa.

Proseguendo nella nostra ricognizione a ritroso, s'incontra un'opera, intitolata San Luca dipinge la Vergine [fig. 7], nella quale Maarten van Heemskerck pare voler andare addirittura oltre sul piano dell’affermazione personale, mettendo in scena un pittore intento a dipingere una donna col bambino, mentre essa fissa al di fuori del quadro. È cioè la stessa modella a sconfessare il pittore raffigurato all’interno guardando il vero artefice, il pittore al di fuori del quadro. L’artista rivela in tal modo, e in un sol colpo, la sua presenza e il carattere di artificio dell’intera composizione15. L'audacia dell'artista è tale da investire del compito non una figura di contorno, bensì una protagonista di prima grandezza, però scissa, e per rendersene conto è sufficiente notare che lo sguardo della Vergine nell'opera del santo-pittore non corrisponde affatto a quello della modella investita qui del ruolo di particolare ammonitore.

Fig. 7

Fig. 8

E così, anche il Parmigianino, che pur aveva già dato una magistrale prova ritraendosi parzialmente deformato (anamorfizzato) in un bombato recipiente da barbiere, quando realizza il ciclo di affreschi Diana e Atteone (1524) a Fontanellato, non resiste alla tentazione di farsi guardare direttamente da uno dei due figli di Paola Gonzaga, ritratti qui come putti abbracciati [fig. 8]. Ed è alla bambina che assegna il compito di squadrare l’artefice con occhi sgranati e incorniciati da un volto gioiosamente malizioso. Un personaggio al quale ben si attaglia la marachella di “guardare in macchina” rivelando a tutti il fatto di essere consapevolmente in posa davanti a un pittore.

Gli esempi sono numerosi, e la loro elencazione si trasformerebbe in una lunga quanto tediosa lista, ma tra questi alcuni sono così caratterizzati da risultare persino ironici. È il caso di un’opera di Filippo Lippi, i Sette Santi (tardi anni cinquanta del ‘400) [fig. 9], una tempera su tavola nella quale sette santi, appunto, seduti uno di fianco all’altro su di un lungo sedile di marmo, pregano e “dialogano” in religioso silenzio, sostanzialmente assorti. Tutti tranne uno: Pietro Martire, l’ultimo sulla destra per chi guarda, che con minor rapimento e compostezza degli altri si direbbe annoiato, o almeno è quanto suggeriscono la posa e lo sguardo rivolto all’esterno del quadro. L’atteggiamento è quello di un modello ormai stanco di mantenere la posizione, il quale fissa l’artista al lavoro in attesa magari di un cenno liberatorio.

Fig. 9

Fig. 10

Qui potremmo fermarci, tuttavia abbiamo iniziato la disamina con un gatto nero, e con un altro animale sembrerebbe appropriato chiudere il cerchio. Lo si vede nelle decorazioni di Palazzo Schifanoia a Ferrara (iniziate nel 1467), ed è quanto di più basso e istintuale riesca a pensare la cultura dell’epoca: una scimmia. Visibile nella fascia superiore dello scomparto di Settembre [fig. 10] realizzato da Ercole de Roberti, è seduta sul carro di Vulcano (ma l'identificazione del personaggio non è universalmente condivisa) trainato da altri primati come lei, però imperturbabili e con lo sguardo fisso in avanti. Non è irritata come il gatto di Manet, ma rivolge lo sguardo al di fuori dell’opera con espressione verosimilmente, data la sua natura, incuriosita.

Al dunque vi sarebbe un artista in fuga dalla historia albertiana (dalla narrazione rappresentata nonché dall’idea che "solo studia il pittore fingere quello che si vede") – e dalla propria condizione di semplice artifex –, grazie a un espediente escogitato per intervenire su di una parte dell’opera e farne, con volitivo atto di ‘presenza’, il segno dell'autoconsapevolezza raggiunta.

In conclusione quindi, l’artista non si sarebbe impegnato a lasciare semplicemente testimonianza di sé e del proprio status sociale (seppur con oggetti molto sofisticati quali un autoritratto o una firma), ma si sarebbe anche prodigato per affermare altrimenti il proprio ruolo, per esplicitare cioè la sua funzione di primaria importanza perché demiurgica. In definitiva per esserci senza però apparire, e così: mostrandosi 'teorico dell'arte' e sperimentatore dimostra il suo pieno diritto di essere annoverabile tra gli artisti liberali.

 

Didascalie delle immagini

Fig. 1 - particolare da Benozzo Gozzoli, Cavalcata dei Magi, 1459, affresco, Firenze

Fig. 2 - Édouard Manet,Olympia,1863, olio cm 130,5 x 190, Parigi

Fig. 3 - Diego Velázquez, Cristo in casa di Marta e Maria, 1620 c., olio cm 60 x 103,5, Londra

Fig. 4 - particolare da Jan Van Eyck, I coniugi Arnolfini, 1434, olio cm 81,8 x 59,7, Londra

Fig. 5 - Jacopo Bassano, Adorazione dei pastori, 1565.70, olio cm 112 x 72,1, coll. priv.

Fig. 6 - Jacopo Bassano. Adorazione dei pastori con i Santi Vittore e Corona, 1568, olio cm 240 x 151, Bassano del Grappa

Fig. 7 - Maarten van Heemskerck, San Luca dipinge la Vergine, 1550.53, olio cm 207,5 x 144,2, Rennes

Fig. 8 - particolare da Parmigianino, Diana e Atteone, 1524, affresco, Fontanellato

Fig. 9 - Filippo Lippi,Sette Santi, 1453.59., tempera cm 68 x 151,5, Londra

Fig. 10 - particolare da Ercole de Roberti, Palazzo Schifanoia – Settembre, affresco, Ferrara

 

 

Note con rimando automatico al testo

1 L. B. Alberti, Della pittura, Firenze, 1950, p. 94

2 H. Belting, Giovanni Bellini. La Pietà, Franco Cosimo Panini, 1996, p. 11.

3 «[...] il festaiuolo, spesso impersonato da un angelo, restava sulla scena durante lo svolgimento dello spettacolo come un tramite tra il pubblico e le vicende rappresentate:: figure corali di questo genere, che colpiscono il nostro occhio e mettono a fuoco l’azione centrale, vengono spesso usate anche dal pittore». M. Baxandall, Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del quattrocento, Einaudi, 1978, p. 75.

4 E. Pommier, L’invenzione dell’arte nell’Italia del Rinascimento, Einaudi, 2007, p. 297.

5 Basterebbe considerare che il Castiglione, nel suo Il libro del Cortegiano, «sottolinea l’”ornamento” e l’”utilità” della musica e della pittura e riscatta quest’ultima dalla corrente svalutazione ad arte meccanica. Il riconoscimento [...] concorda con lo sforzo di Leonardo per riqualificare anche in senso sociale il ruolo del pittore». P. Barocchi, a cura di, Scritti d’arte del Cinquecento, Einaudi, 1977, vol. 1, p. 113. Per una disamina più estesa rinviamo al nostro testo, Avanguardia e “creazione” in Leon Battista Alberti, https://foglidarte.it/il-rinascimento-oggi/599-avanguardia-e-creazione-in-leon-battista-alberti.html

6 Puntiglioso e dettagliato l’elenco compilato da Victor I. Stoichita dei modi adottati dall’artista per raffigurarsi all’interno della propria opera: «Chiamerò quindi “autoproiezione contestuale” la rappresentazione dell’autore inserita in un’opera di cui egli si dichiari, in un modo o nell’altro, l’artefice. L’autoproiezione contestuale presenta molteplici modalità di realizzazione. Ne indicherò quattro: l’autore testualizzato, l’autore mascherato, l’autore-visitatore, l’autore in autoritratto riportato», ma per gli opportuni approfondimenti rinviamo al suo testo, L’invenzione del quadro, il Saggiatore, 1998, pp. 202-208.

7 D. Arasse, Le sujet dans le tableau, Flammarion, 1997, p. 11.

8 «Componente essenziale di ogni comunicazione o azione significante – accanto all’organizzazione di valori, e alla messa in scena di tempi, luoghi, azioni – è infatti la creazione di una determinata relazione con il fruitore, ossia di una determinata strategia enunciativa»: L. Corrain, Introduzione, in AA.VV., Semiotiche della pittura, Meltemi, 2004.

9 G. Didi-Huberman, Beato Angelico. Figure del dissimile, Leonardo, 1991, p. 126.

10 O. Calabrese, Prefazione, in L. Corrain, Semiotica dell’invisibile, Esculapio, 1996, p. XIII.

11 Con ogni probabilità Louis Marin userebbe qui il termine opacità, il cui significato viene così sintetizzato da Giovanni Careri: «Opacità è dunque il termine che designa l'armatura enunciazionale di ogni rappresentazione: i dispositivi visivi che assegnano un punto di vista allo spettatore, le tracce che manifestano la posizione dell'autore […], le istruzioni nascoste che orientano lo sguardo, guidano la lettura». G. Careri, Prefazione, in L. Marin, Opacità della pittura, La casa Usher, 2012, p. 8.

12 Sarebbe opportuno considerare le differenze tra “osservatore” e “spettatore”, ma in questo caso, trattando espressamente di sguardi piantati negli occhi di chi guarda, ci sembra opportuno privilegiare l’unicità del punto di vista «il quale consiste in una sorta di “sguardo originario”, lo sguardo del produttore dell’immagine, che è previsto coincidere esattamente con lo sguardo di qualunque fruitore»: O. Calabrese, La macchina della pittura, Laterza, 1985, p. 266.

13 M. de Bernardi, La questione percettiva in semiotica, tesi di dottorato di ricerca, Bologna, 2008, p. 195.

14 C. Lévi-Strauss, Note su Olimpia, “Tuttolibri”, 25 ottobre 2008, p. VII.

15 Inoltre in questo caso la scelta del soggetto dell’opera non sembra affatto casuale: «La leggenda di Luca è ormai solo un pretesto, come nel caso di Maarten Van Heemskerck, per un’autopropaganda dell’arte che intanto si separa dalla sua materia o dal suo tema per eleggere a tema se stessa»: H. Belting, La vera immagine di Cristo, Bollati Boringhieri, 2007, p. 232.

 

 

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