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Fogli e Parole d'Arte

Rivista d'arte on line, ha ricevuto il codice ISSN (International Standard Serial Number)

1973-2635
il 23 ottobre 2007.

Fogli e Parole d'Arte è diretta da
Andrea Bonavoglia (Vitorchiano)
e distribuita on line dalla società Ergonet di Montefiascone (Vt).

Fogli e Parole d'Arte

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Testuali parole

Dove sta Zazà? Dell’arte contemporanea e di alcuni problemi


“ Una pietra non è normalmente un’opera d’arte finché sta in quel viale, ma lo può essere quando è messa in bella vista in un museo”.
N. Goodman - Vedere e costruire il mondo

 

In realtà, è come scegliere di andare deliberatamente a schiantarsi contro un muro. Avventurarsi nei territori dell’arte contemporanea al fine di determinarne anche solo la data d’inizio, dà le stesse sensazioni di cui sopra. Impenetrabile e inaccessibile il muro, impenetrabile e inaccessibile la focalizzazione di qualcosa che non fornisce appigli sicuri se non a costo di generalizzazioni e omissioni. Ci si trova, ahimè, nella stessa condizione descritta da Sant’Agostino: “Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno mi interroga lo so; se volessi spiegarlo a chi mi interroga non lo so”. Al dunque potrei, anzi dovrei, arrendermi preventivamente, se non altro per salvare di me il salvabile (schiantarsi non è desiderabile).

Come è ovvio, a dibattermi nella questione specifica mi ritrovo in ampia e buona compagnia, e quindi i tentativi a cui guardare non mancano. C’è, a esempio, la rassicurante temporalizzazione accademico-universitaria, secondo la quale l’insegnamento della storia dell’arte contemporanea segue quello della storia dell’arte moderna, e cioè va all'incirca dagli Impressionisti a oggi. Indubbiamente funzionale e condivisibile dato lo scopo, ma troppo estensiva e, suvvia, niente affatto realistica perché il lungo arco temporale (dalla fine del XIX secolo a oggi) non regge alla prova dei fatti e dello sguardo.

Lungo la stessa china si può passare dall’abnorme estensione universitaria, alla compressione radicale di chi sposta incessantemente la data di inizio proponendo di considerare il “contemporaneo” – per l’arte visiva – come frutto degli ultimi venticinque anni, e quindi in continuo e progressivo slittamento.

Più equilibrate, e forse assennate, le posizioni di coloro che, a esempio Jean Clair, Mario Perniola e Arthur C. Danto, pur con dei distinguo di sostanza, suggeriscono di individuare in un momento preciso, e cioè grosso modo alla fine degli anni ’60 del secolo scorso, il manifestarsi di una significativa rottura, di una profonda discontinuità, la cui radicalità è tale da inaugurare per l’arte un nuovo corso e quindi il suo divenire contemporanea.

Fig. 1 1

Fig. 2 2

 

Non manca comunque chi, da posizione semplificatoria (seppur etimologicamente irreprensibile), considera contemporaneo tutto ciò che opera contestualmente, ciò che nasce e vive adesso, in questo momento e tempo. Indifferente, quindi, al fatto che qui e adesso qualcuno possa ancora esprimersi come Masaccio [fig. 1] pur essendo coetaneo, chessò, di Fabrizio Plessi [fig. 2]. Naturalmente è possibile, nulla e nessuno può impedire a chicchessia di ripetere oggi il ‘400 italiano, ma potremmo effettivamente considerare la sua arte come esempio (buono o cattivo che sia, non è questo il punto) di arte contemporanea?

Personalmente trovo lucida e suggestiva una considerazione di Marco Belpoliti: «Di fronte al contemporaneo bisogna mettere in gioco una distinzione fondamentale tra due termini: “contemporaneo” (“con-tempo”) e “attuale” (“ciò che è in atto”). Il contemporaneo esprime una potenzialità possibile, qualcosa che può essere, qualcosa che è rivolto verso il futuro; l’attuale si realizza invece tutto nel tempo presente, perché è già in atto». Prospettiva affascinante: contiene l’oggi, il passato e il futuro, nonché il possibile.

Tuttavia ancora non basta, si continua a percepire incombente la sinistra presenza dell’impenetrabile (e invisibile) muro.

Sin qui i tentativi di determinazione temporale del fenomeno (ammesso si possa parlare di un unico fenomeno), ma, qui giunti, e cioè ben lontani da un approdo sicuro, il vero intoppo sembra costituito essenzialmente dal voler rimanere legati a un’idea cronologica e linear-evolutiva di ciò che chiamiamo arte. D’altro canto non ci si può neppure più rifugiare in comode classificazioni basate su singoli e magari tangibili aspetti; a riguardo Nathalie Heinich toglie ogni illusione: «marcata è la tendenza di quest’ultima [l’arte contemporanea, ndr] a operare uno spostamento del valore artistico, che non sta più nell’oggetto proposto ma nell’insieme delle mediazioni possibili tra l’artista e lo spettatore: racconti sulla fabbricazione dell’opera, leggende biografiche, tracce di performance, reti relazionali, groviglio di interpretazioni, pareti di musei chiamate a integrare oggetti che le violentano, tutto ciò contribuisce a creare l’opera tanto quanto la materialità dell’oggetto, se non di più».

 

Fig. 3 3


Malgrado la breve – e certo non esaustiva - ricognizione delle posizioni generate dalla necessità di mettere un minimo di ordine, numerosissimi appaiono ancora gli aspetti in grado di accavallarsi in modo scomposto. Il primo aspetto che intuisco e intravedo, in un certo senso ci riporta però nuovamente al muro: si dà per scontato, infatti, che con la parola “arte” si indichi sempre la stessa cosa, il medesimo “oggetto”, e che quindi Zeusi e i fratelli Dinos & Jake Chapman [fig. 3] siano idealmente affratellabili per l’innegabile fatto di essere artisti e, quindi, di realizzare arte. Tempo e luogo, estetica generale e poetica personale, percorsi e formazione, scelta e trattamento dei materiali, ecc., sembrano dettagli irrilevanti, smarriti o abbandonati con noncuranza lungo la strada.

E così per molti, se non moltissimi, arte non può che essere quella cosa che necessita di un muro, di una parete, un po’ perché in alcuni casi vi nasce sopra (l’affresco, certo, ma anche la molta pittura murale, inclusa la street art), e un po’ perché lì è destinata a finire quando viene appesa a un chiodo. Mentre per altri, ovviamente, non è più così, e il muro stesso è ostracizzato, individuato come un pericoloso spauracchio simbolo di un passato divenuto spregiativamente passatista (bella sfida sarebbe appendere al muro i cumuli di caramelle di Felix Gonzales-Torres [fig. 4]). Indicativa della contrapposizione, la domanda sollevata il giorno dell’inaugurazione del MAXXI (Museo nazionale delle arti del XXI secolo) di Roma realizzato dall’architetto Zaha Hadid: «ma dove si potrebbero mai appendere dei quadri in un simile posto?». Pungente e maliziosa, ma altrettanto indicativa, la risposta: «i quadri si appendono in salotto».

 

Fig. 4 4

Fig. 5 5

 

Al dunque, sintetizzando brutalmente, un olio su tela apparterrebbe irrimediabilmente all’arte del passato, mentre uno squalo in carne e ossa immerso in un liquido [fig. 5] rappresenterebbe il contemporaneo? Non ne sono affatto persuaso, se non altro perché non è affatto assodato che all’arte contemporanea necessitino una forma e una sostanza per essere definita tale. Come si giustificherebbero altrimenti quelle opere destinate alla dissoluzione, o profonda mutazione (modificazione quindi di forma e sostanza), o fatte quasi solo di un puro concetto, di un’idea?

Si direbbe un’impresa disperata (come paventato fin dall’inizio), dal tentativo di stabilire quando inizia l’arte contemporanea sto scivolando verso la domanda delle domande: “cosa è l’arte?”. E in questo caso il passaggio dalla padella alla brace è istantaneo, con l’unico conforto di una tuta ignifuga fornita da una definizione salvifica perché autoreferenziale e non prescrittiva: «l’arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte»; l’unica possibile secondo Dino Formaggio e Mikel Dufrenne.

Insomma, eccoci nuovamente messi al muro. Ma forse una scappatoia c'è: fare ricorso a indizi periferici per la determinazione dell’appartenenza dell’opera, per evitare cioè il frontale e diretto muro contro muro. Come? Facendo entrare in gioco anche altri attori, altre componenti che concorrono al “fare arte”, e cioè altri elementi del complesso sistema. Ne propongo cinque: i curatori di mostre, le associazioni culturali che si prodigano nell’organizzazione di eventi artistici, i critici d’arte, e due strumenti operativi: il contesto che origina un differente “sguardo estetico” e il combinatorio gioco del Tangram.

Folle? Può essere, ma non è folle anche dedicarsi all’arte contemporanea?

Al fin, la mia modesta proposta suggerisce che non sia il supporto materiale o la tecnica impiegata, né altre cose viste via via nel corso del tempo (dall’abbandono del cavalletto alla video art passando per l’happening/evento), a fare delle opere, opere di arte contemporanea, ma la composizione, scomposizione e ricomposizione del discorso che è possibile articolare tramite le singole opere nell’allestimento di una esposizione (sia essa in una galleria, in un museo, oppure in luogo inconsueto). In pratica il discorso che è possibile formalizzare e manifestare al di là del singolo artefatto. Così si può forse ardire e ambire alla delineazione di scenari che si aprono verso il futuro cercando d’interpretare contemporaneamente istanze manifestatesi nel presente, e che all’arte richiedono attenzione e visualizzazione. Così, e forse solo così, diventa ragionevole - all’interno di un medesimo discorso/mostra - la coesistenza di opere tra loro altrimenti distanti, ma in questo nuovo contesto cooperanti al fine di esprimere qualcosa magari di unitario e foriero di nuove osservazioni e considerazioni.

Una modesta proposta, non v’è dubbio, ma potrebbe contribuire a trasformare, per via empirica, la singola opera fatta oggi in un’opera che in virtù della rete di link diventa “arte di oggi”.

 

Didascalie delle immagini

1 - Masaccio, Miracolo del tributo, 1424.27, affresco

2 - Fabrizio Plessi, Water, 1978, vasca di ferro, acqua, monitor, neon

3 - Jake & Dinos Chapman, Fucking Dinosaur, 2011

4 - Felix Gonzalez-Torres, Senza titolo, 1991, caramelle

5 - Damien Hirst, L'impossibiltà fisica della morte nella mente di qualcuno vivente, 1991

 

 

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