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Fogli e Parole d'Arte

Rivista d'arte on line, ha ricevuto il codice ISSN (International Standard Serial Number)

1973-2635
il 23 ottobre 2007.

Fogli e Parole d'Arte è diretta da
Andrea Bonavoglia (Vitorchiano)
e distribuita on line dalla società Ergonet di Montefiascone (Vt).

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Spettacoli sulle scene e sugli schermi

Un gelido splendore


Una bella messa in scena, e meritevole opera di regia sul testo quella andata in scena di recente al Teatro Tor Bella Monaca (Roma, 1-3/11/2022) con Agamennone, su testo del poeta Ghiannis Ritsos, per la regia di Alessandro Machia. Una sinfonia di parola, immagine e amplificazioni sonore.

La voce microfonata, di Clitennestra, in playback, segue il suo ingresso. Recita non Ritsos, ma l’Agamennone di Eschilo. Parla del re amato perché si fa carico del peso della storia, sottraendo al popolo l’angoscia della scelta e della libertà. Il tiranno come santo sacrificale. Ed Eschilo sembra compitare avanti tempo la filosofia di Kierkegaard, incarnare il santo inquisitore di Dostoevskij nei Fratelli Karamazov.
Il ritorno del re.
Poi, mentre entra lui, elmo in mano, e si ferma davanti a uno specchio sullo sfondo, lei si accomoda, silente, gelida e spettrale testimone, dietro ad un lungo tavolo moderno, in ferro e vetro, tra due alte luci laterali, su cui campeggiano bicchieri e brocche. Lei che qui il regista presentifica, mentre in Ritsos è assente fantasma del suo monologo

E lui comincia a recitare il testo di Ritsos:

Dalla sommità della scala di marmo […] si odono […] lo scalpitio[…] le voci[…] il tumulto […] le grida profetiche […] grida incomprensibili.

Sono le parole del poeta (l’Agamennone di Ritsos è un monologo in versi), ma già sembrano anticipare la filigrana tutta sonora - d’oltretomba – che innerverà lo spettacolo, sui toni del bianco e del nero, di una vetrificata trasparenza spettrale.

Si odono? C’è il senso della lontananza irreale della realtà. Tutto è compiuto, inutilmente. Come non pensare, pur nell’atmosfera raggelata dell’incombente regicidio, per lo stato d’animo del re, a Macbeth, “It is a tale told by an idiot, full of sound and fury, signifying nothing”. Se Agamennone non ha ucciso il sonno, certo è un’ombra che cammina, ed il passato è fatto di grida incomprensibili, dove si mischiano l’acclamazione del popolo e deliri profetici. Il testo è recitato da Tidona con stanchezza e perplessità, come chiede che sia il suo senso, ed è un faticoso pezzo di bravura. Si muove stanco, si contorce nei meandri di memoria e coscienza, tenta di guardare e possedere per l’ultima volta – nel sentore della fine – il senso della sua vita, che acquista senso e lo sfalda nel suo rifletterla, mentre scivola come l’acqua sul gelido silenzio vendicativo di lei, muto angelo sterminatore, a tratti venato di sublime gelida pietà, tra gesti ora ieratici, ora lievemente danzanti. Una splendida Carolina Vecchia. Un teatro di ombre.

Un rito. Lei è il muro di silenzio della psicanalisi su cui si infrange e innerva la mesta presa di coscienza del re, agnizione dell’ineluttabile. E così, lei versa acqua nei bicchieri, il cui colare amplificato si vetrifica in un grido d’acqua che si spezza, come si spezza il tempo in schegge di dolore muto. Il rito dello scorrere dell’acqua come di un tempo irreversibile – il tempo della scelta (che il tempo è scelta) – tempo che cola in dei bicchieri, come tempo versato.

Il bicchiere, il recipiente che conserva la vita, da cui eternamente bere, la vita che non può andarsene. Così, ancora nel campo di battaglia, un giovane guerriero (Ione) irride la morte, scagliando un bicchiere, che non si rompe. Ma il giorno dopo muore in battaglia. E così, mentre al ritorno le navi affrontano la tempesta, Agamennone vede un salvagente su cui c’è scritto destino. Ma gli appare una beffa senza senso. Il ritorno sarà un naufragio della sua vita, il naufragio della coscienza e del senso, di cui la morte attesa è solo corollario. Mentre racconta e rinvanga lei lo fissa, e lancia bicchieri che non si rompono. Ma quando ne dà uno a lui, lui lo rompe, dicendole che non lo ascolta. In realtà è lui che lo doveva rompere, come atto di coscienza, mentre lei si allontana per riempire bacili a terra di acqua rossa, simbolo del bagno caldo che gli prepara e che sarà riposo, ma il riposo della morte.

Agamennone parla solo, agganciandosi ogni tanto ai silenziosi gesti di lei, su cui scivola impotente. Racconta episodi nelle notti di luna al campo, l’assurdo della morte, la vanità del tutto e il suo non sentirsi eroe ma attaccato alla vita, come quando una freccia gli sibila accanto senza colpirlo. E parla con pietà di Achille, la cui ira interpreta come premonizione del nonsenso, e sulla cui tomba andrà pietoso e fedele solo un cane. Parla di Elena che rimpiange allo specchio la sua bellezza, e della bellezza di Clitennestra, che vuole ricordare eterna nel suo giovane amore, senza quindi giacere ora con lei (ed è l’unico momento in cui lei si avvicina, in teso residuo d’amore).

Vengono poi amplificati alcuni simboli nel discorso che Ritsos offre ad Agamennone, uno dei quali trasposto da Machia in azione. Da una parte si parla di guerrieri nudi che giocano a schiacciare lumache, ma i cui falli al vento a loro volta paiono lumache, irrisione di gioventù ed eros guerresco. La vita come una viscida lumaca da schiacciare? Come la lumaca del tempo che striscia nel monologo macbettiano?

Dall’altra la formica, che umilmente trascina una briciola di cibo enormemente più grande di lei (qui presentificata). E’ la metafora dell’uomo, e di lui stesso, schiacciato dal ruolo. E infatti invoca la moglie perché non schiacci col bicchiere una formica sul tavolo. Cioè perché non schiacci lui?

Machia è abile, tra rigore geometrico minimalista, silenzio e inferno sonoro, ad amplificare il tragico dimenarsi nel nulla di Agamennone, che cammina, si siede, si abbraccia, si raggomitola a terra, maledice lo iato tra carne flaccida e desiderio, si torce con le mani la pelle del viso – e tutto questo di fronte all’urlo muto e gelido della moglie, prigioniera ieratica del suo ruolo vindice.

Tutto si liquefa in silenzio.

Lui, al tavolo, di spalle, alza le braccia al cielo, sacerdote del proprio sacrificio, mentre la sua ombra giganteggia sul muro. 
Si alza una musica sacra – “Vieni”, le dice, ormai arreso al destino.

E nel silenzio cala l’applauso in crescendo.

 

 

Scheda tecnica

Agamennone, di Ghiannis Ritsos,
traduzione Nicola Crocetti,
con Andrea Tidona e Carolina Vecchia.

Progetto e regia di Alessandro Machia, assistente alla regia Nicole Mastroianni, scene Katia Titolo, costumi Sara Bianchi, luci Giuseppe Filipponio, habitat sonoro Giorgio Bertinelli. Una produzione Zerkalo, in collaborazione con il Festival APPIA NEL MITO

 

 

 

 

 

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