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Fogli e Parole d'Arte

Rivista d'arte on line, ha ricevuto il codice ISSN (International Standard Serial Number)

1973-2635
il 23 ottobre 2007.

Fogli e Parole d'Arte è diretta da
Andrea Bonavoglia (Vitorchiano)
e distribuita on line dalla società Ergonet di Montefiascone (Vt).

Fogli e Parole d'Arte

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Testuali parole

Iconodulia forever

 

 

Parentesi sul culto delle immagini accordato ad una teologia-politica

L'immagine - diventata il visivo nella modernità - può essere considerata infatti quale medium storico dei rapporti di mediazione (e di immediatezza) con la categoria della teologia politica, già a partire dalla configurazione augustea. In effetti, il percorso verso l'immediatezza può dirsi compiuto solo al tempo della religione capitalistica che, in accordo ad una diversa tecnologia produttiva, segna la riduzione dell'oggetto rappresentato nella sua riproduzione – nell’attimo della sua conoscibilità.

 

Fig. 1

1. da Augusto

L'architettura e le arti figurative rispecchiano lo stato di una società e i suoi sistemi di valori ma anche i suoi momenti di trasformazione e di crisi. Se resta difficile analizzare determinate opere d'arte quali testimonianze storiche di uno specifico messaggio, un mutamento di sistema politico conduce pur sempre allo sviluppo di un nuovo linguaggio visivo che riflette e nello stesso tempo condiziona in modo essenziale l'evoluzione della mentalità.

«Poche volte nella storia le arti furono messe al servizio del potere politico in modo così diretto come nell'età augustea» - avverte Zanker nella prefazione al suo testo Augusto e il potere delle immagini. Anche come revival. Pensiamo agli anni trenta del Novecento che riportano come motivo culturale di fondo l'idealizzazione dell'arte augustea in concomitanza alla sistemazione urbanistica della Roma fascista (si vedano ad esempio le celebrazioni per il secondo millennio della nascita di Augusto, nel 1937, come impiego dell'arte romana nel suo insieme - e in particolare quella augustea - nel quadro di una estetizzazione del nuovo potere in accordo ai suoi megalomani progetti imperiali). Ad ogni modo, alcuni tratti salienti della parabola augustea permettono di chiarire le condizioni di fondo che muovono la fruizione delle immagini in adempienza al culto, che si accorda silenziosamente ad un principio di comando1.

Dopo aver raggiunto il potere assoluto (31 a. C.), con un programma culturale di ampio respiro perseguito con coerenza lungo un arco di oltre vent'anni, Augusto si propose - e ottenne nei fatti - un sostanziale mutamento della mentalità collettiva: ai fasti celebrativi dei grandi generali oppose il culto del sovrano eletto dagli dèi; allo scandalo del lusso privato, un programma di grandiose opere pubbliche (publica magnificentia); all'indifferenza religiosa e all'immoralità, una campagna di rinnovamento religioso e morale (pietas e mores).» (ZANKER, 2006: p. 5)

Un programma del genere richiedeva un nuovo linguaggio figurativo che regolasse i complessi rapporti tra l'instaurazione della monarchia, la riforma della società e i mutamenti avvenuti nella sfera delle immagini e nell'intero sistema della comunicazione visiva. Come maldestramente imparato a scuola, non si trattò di un preciso apparato propagandistico ma di un «raffinato sistema di propaganda risultato da un intreccio fra le iniziative celebrative del sovrano e gli omaggi più o meno spontanei offertigli dalla popolazione: un processo che sembra non obbedire ad alcuna regia occulta.» (ZANKER, anno: p. 7)

Questa condizione risulta con chiarezza dal "nuovo ritratto" di Augusto. A partire dall'assegnazione dell'epiteto augustus - una scelta geniale che avvolse la figura dell’imperatore in un alone di sublimità e di prodigio fin dall'epoca della restitutio, entrando finanche stabilmente nel calendario in sostituzione di Sextilis - il nuovo ritratto del Cesare Augusto esprime il carattere della "nuova" immagine del sovrano, come intendeva essere visto nella sua qualità di Augusto:

«Giacché, chiunque fossero i committenti delle singole repliche che a migliaia furono fatte del nuovo ritratto, si deve pensare che l'originale sia stato approvato da Augusto, se non addirittura commissionato da lui - ed è evidente che lo scultore incaricato di realizzarlo lavorò su indicazioni precise sia per lo stile che per il carattere del ritratto.» (ZANKER, 2006: p.106)

Gli onori del 27 a.C. e il nuovo ritratto mostrano come abbia potuto nascere e diffondersi un nuovo repertorio simbolico nella situazione che si era venuta a creare dopo la conquista del potere assoluto. Il fatto poi che Augusto possa identificarsi con la nuova immagine celebrativa, senza tuttavia muovere un dito per propagandarla, indica un nuovo atteggiamento nella recita della parte del monarca assoluto mentre la rapida diffusione della stessa si deve allo slancio con cui le città e le corporazioni, i gruppi e i privati cittadini fecero a gara nell'omaggiare Augusto, nel dimostrargli lealtà e gratitudine.

Sia in Oriente che in Occidente la ricezione del programma augusteo e del nuovo linguaggio visivo fu favorita dal rapido diffondersi del culto imperiale. Dopo Azio si diffuse infatti l'esigenza elementare di stabilire un rapporto diretto con Augusto, la cui persona incorporava per la prima volta nel bacino del mediterraneo l'idea esplicita di un domino mondiale duraturo. Se l'Oriente aveva già elaborato, col culto dei sovrani ellenistici, un linguaggio adatto alla nuova situazione, era nella natura delle cose che l'Occidente adottasse il culto imperiale, poiché esso offriva alle élites locali una nuova cornice nella quale mettere in scena e consolidare il proprio prestigio. Ed anticipa inoltre quel lento e graduale processo di ellenizzazione dell'intero Occidente latino - di cui il nuovo culto politico rappresenta una tappa ulteriore e decisiva.

 

Fig. 2

2. a Costantino

Nell'ambito dell'intera storia dell'arte europea, è difficile individuare un fenomeno più rilevante dell'accettazione, da parte della Chiesa cristiana, delle immagini - dipinte e scolpite. Se il cristianesimo avesse persistito nel suo categorico rifiuto delle immagini e addirittura di ogni forma artistica, secondo quanto proclamato nei primi due secoli della sua esistenza, la principale tradizione greco-romana sarebbe risultata priva di sbocchi, spinta nella clandestinità ovvero, tutt'al più, incanalata negli esiti marginali di uno sviluppo puramente profano o decorativo. Ad ogni modo tale processo giunge a tutti gli effetti a compimento nel corso del III secolo ovvero, al più tardi, con la vittoria del cristianesimo sotto Costantino il Grande. In quest'epoca la Chiesa sembra aver completamente assimilato l'eredità dell'espressione artistica classica come pure le sue soluzioni iconografiche e stilistiche, e il problema dell'ammissibilità delle immagini nella chiesa sembra aver trovato una soluzione, almeno in linea di principio, tale da non essere rimessa in discussione se non secoli dopo nel periodo dell'iconoclastia a Bisanzio.

È bene ricordare, considerando il sorgere di pratiche idolatriche presso i cristiani, che i Padri del IV secolo riconoscono apertamente la legittimità degli onori e degli atti di ossequio tradizionalmente rivolti all'immagine dell'imperatore - in accordo alla politica delle immagini già inaugurata da Augusto.

Secondo Malalas, fu Costantino a istituire la cerimonia in cui la sua immagine veniva portata in processione solenne nell'anniversario della fondazione della capitale e l'imperatore di turno si prostrava di fronte ad essa. E non mancano testimonianze del fatto che il tradizionale culto del ritratto imperiale abbia subito scarse se non nulle interruzioni durante il trionfo del cristianesimo. Numerose fonti del IV secolo rivelano come tali pratiche, una volta che l'imperatore si fosse convertito al cristianesimo, non sollevavano più alcuna obiezione da parte della maggioranza delle autorità ecclesiastiche2. (KITZINGER, 1992: p. 12-13)

Proprio la continuità fra culto dell'immagine dell'imperatore e culto delle immagine divina può essere posta a fondamento dello slittamento lessicale che porta l'immagine a farsi archetipo se è possibile attribuire «probabilmente la promozione ufficiale del culto delle immagini religiose nella seconda metà del VI secolo a certi sviluppi secolari della corte bizantina non meno che a considerazioni di ordine teologico3

L'estratto testuale di seguito riportato chiarisce ancora meglio questo decisivo passaggio, soprattutto in accordo al carattere di immediatezza che accompagna la tecnologia di riproduzione dell'immagine nel farsi archetipo (un percorso che si realizza definitivamente nel ready-made, al tempo della religione capitalistica4)

I ritratti dei sovrani furono scarsamente interessati dall'avversione ufficiale cristiana nei confronti di ogni forma di idolatria. La loro costante adorazione fu liberamente riconosciuta sin dal IV secolo. È bensì vero che, di norma, non vennero più offerti sacrifici in loro onore, ma da ogni altro punto di vista essi continuarono a svolgere un preminente ed importante ruolo nel culte imperial. Venivano portati solennemente in processione e ricevevano acclamazioni e proskynesis. Candele e incenso fanno la loro apparizione in questo culto assai prima che tali pratiche siano riscontrabili in relazione alle immagini religiose. Questi aspetti esteriori sono espressione di una funzione chiaramente riconosciuta ed esattamente definita del ritratto imperiale, il cui status ufficiale, diversamente da quello delle raffigurazioni religiose cristiane, fu assicurato dall'inizio. L'immagine imperiale ebbe, in effetti, uno specifico ruolo giuridico e costituzionale che fu stabilito in epoca romana e che non venne intaccato dall'avvento del cristianesimo. Per gli imperatori cristiani, come per quelli pagani, i ritratti avevano la funzione di rappresentarli ovunque non potessero essere presenti di persona5. Tali ritratti venivano inviati in province lontane, a governanti di pari grado e a subordinati, per ricevere atti di omaggio a nome di un nuovo sovrano, e l'accettazione o il rifiuto nei loro confronti implicava accettazione o rifiuto del sovrano stesso. Nei tribunali, nei mercati, nei luoghi di assemblea e nei teatri essi servivano a rappresentare la sacrale persona dell'imperatore assente e a ratificare gli atti dei magistrati. [...] Ma l'aspetto più sorprendente, forse, era dato dalla funzione dei protettori legali del singolo cittadino che veniva loro riconosciuta. Ad statuas confugere costituiva un diritto tradizionale per qualsiasi persona che ricorresse alla protezione della legge imperiale, un diritto che fu chiaramente limitato ma non eliminato nelle codificazioni di Teodosio e Giustiniano. La chiesa non respinse questa pratica giuridicamente accettata.» (KITZINGER, 1992: p. 58; 81)

Esisteva dunque in modo assai chiaro una tradizione instaurata da lungo tempo e mai seriamente messa in discussione che accordava al ritratto imperiale un'importanza e un potere vicario tali che difficilmente avrebbero potuto essere attribuiti alle immagini religiose, senza suscitare scrupoli e opposizione. È vero che tale potere si fondava su una premessa che non aveva attinenza con la sfera religiosa: a differenza della Divinità, il sovrano non poteva essere onnipresente e il suo non essere personalmente presente costituiva, per così dire, la condizione per attribuire poteri così grandi e onori così rilevanti ai suoi ritratti. In ogni caso, tuttavia, ciò portò a rendere notevolmente confusa la linea di demarcazione fra immagine e archetipo.

Questo stato di cose diventa ancora più chiaro se inserito nel triangolo relazionale proprio di ogni opera d'arte; indagata la stessa, diventa opportuno segnalare i rapporti di produzione dell'artista e i rapporti di fruizione del pubblico così da circoscriverne l'ambito di irraggiamento.

La rivoluzione nell'ambito dell'arte religiosa trova compimento nell'estensione e nell'intensità dell'uso quotidiano delle immagini religiose da parte dei singoli individui, del clero e della autorità secolari, non soltanto nelle pratiche devozionali, ma anche per il conseguimento di concrete e specifiche finalità. Alla radice di questo movimento, vi era infatti il desiderio fortemente sviluppato di rendere visivamente tangibile la presenza della Divinità e dei santi, e il soccorso che ci si aspettava da loro. Attivamente incoraggiato dalle autorità secolari ed ecclesiastiche, questo desiderio portò inevitabilmente a eliminare la distinzione fra l'immagine e il suo archetipo. (KITZINGER, 1992: p. 163)

È evidente come questa condizione sia prodotta dall'operato dello stesso artista, il quale

è incaricato del compito di creare un'immagine atemporale e distaccata, in contatto con il cielo piuttosto che con l'umanità, un'immagine in grado di rispecchiare, come attraverso un riflesso diretto, il suo divino o santo archetipo e, inoltre, di servire come veicolo di forze divine, come ricettacolo della sostanza divina. Autosufficiente in relazione allo spettatore l'immagine deve allo stesso tempo configurarsi in modo aperto nei confronti del cielo. Ciò che l'artista è chiamato a creare è un guscio, privo di forma e di senso in quanto tale, pronto a ricevere potenza e vita dall'altro, dallo spirito santo che lo coprirà della sua ombra, dalle entità celesti che vi eleggeranno la propria dimora. (KITZINGER, 1992: p. 165)

Arrivati a questo punto della trattazione diventa opportuno indicare, insieme a Belting, il centro della semicirconferenza tracciata finora.

La domanda sulle ragioni per cui il cristianesimo alla fine scelse il culto delle immagini e questo ebbe inizio proprio nel VI secolo è sempre stata ricorrente. [...] La questione può essere affrontata da angolazioni differenti ed elaborata secondo una prospettiva storico-religiosa oppure storico-politica, per indicare solo due possibilità. I teologi si limitarono a fornire la teoria di una pratica preesistente. Lo stato dette forma pubblica alla venerazione, inviando forti segnali alla società. (BELTING, 2004: p. 64-5)

Concettualmente, la profondità di questa osservazione scaturisce non tanto dalla rappresentazione concreta quanto dall'immagine mentale che ne consegue. Infatti,

La domanda si riferisce naturalmente alle immagini nella loro materialità, che però è sempre riempita da immagini mentali. Nascono perché con esse ci si deve formare una immagine di ciò per cui esse stanno. Nel nostro caso rappresentano una persona che non si può vedere perché è assente (l'imperatore) o è invisibile (Dio): altrimenti non ci sarebbe stato bisogno di venerarle. è un'antica tradizione che l'imperatore assente sia però presente nell'immagine. La rappresentazione del Dio (invisibile) anche se era divenuto visibile con Gesù) costituiva invece per il cristianesimo un problema che, con la controversia iconoclastica, si era notoriamente inasprito e che per un secolo tenne i teologi con il fiato sospeso. (BELTING, 2004: 65).

 

Fig. 3

3. I due corpi: del re

Un carattere essenziale della vita politica, il consenso verso lo Stato, passa per il lavoro metaforico che struttura invisibilmente la totalità del linguaggio della comunità occidentale tra il XIII e il XVII secolo. La teoria dei Due Corpi, enunciata esplicitamente nella versione assolutista del XVI secolo, si presenta come una singolare metafora che fa coesistere in un solo essere - il sovrano - due realtà, una concreta (l'individuo regale) e una figurata (il Re perpetuo): lo stato risulta come un essere di fisionomia personale e di costituzione impersonale da poter rintracciare nell'espressione della sovranità cristocentrica. Questi i binari su cui corre il testo di Ernst H. Kantorowicz I due corpi del Re - l'idea di regalità nella teologia politica-medievale.

Il testo viene presentato nell'introduzione di Alain Boureau come affine - per impostazione metodologica - agli enunciati foucaultiani presenti in Archeologia del sapere. L'indagine condotta dall'autore tedesco sull'enunciato Christus-fiscus6 configura infatti questi termini in un rapporto non dissimile da quello che si realizza nel sostegno del tutore alla pianta della vite:

La formula Christus-fiscus sembra quindi semplicemente l'espressione di uno sviluppo lungo e complesso grazie al quale qualcosa di decisamente secolare e apparentemente profano da ogni punto di vista, cristiano o meno, - il fisco - venne trasformandosi in qualcosa di quasi sacro. Il fisco divenne da ultimo un fine in sé. Fu considerato uno dei contrassegni della sovranità e, con tale capovolgimento dell'ordine originario, potè dirsi che il fisco rappresenta lo stato e il principe7 » (KANTOROWICZ, 1989: p. 162)

La duratività di questa impostazione risulta evidente se rapportata al culto delle immagini - il non morire nonostante la morte diventa tratto distintivo della produzione di effigie in occasione dei funerali del sovrano sin dal 1327; in altri termini «al simbolismo della morte del Re nonostante la morte del re si ricollega una delle più impressionanti manifestazioni dello sdoppiamento del re in termini moderni. (KANTOROWICZ, 1989: p. 361). Lo stesso autore, di seguito, aggiunge:

in realtà, l'importanza dell'effigie del re nei riti funebri del XVI secolo presto eguagliò e persino eclissò quella dello stesso corpo del defunto. In mondo già percepibile nel 1498 ai funerali di Carlo VIII, e con piena chiarezza nel 1547, con i riti in memoria di Francesco I, l'esposizione dell'effigie venne successivamente collegata alle nuove idee politiche dell'epoca che affermavano, ad esempio, che la dignità reale non moriva mai e che in immagine la giurisdizione del re defunto continuava sino al giorno della sua sepoltura. Sotto l'effetto di queste idee - rafforzate dall'influenza derivante dai tableaux vivants medioevali, i trionfi italiani, e dallo studio come dall'applicazione dei testi classici - il cerimoniale connesso all'effigie cominciò a riempirsi di nuovi contenuti e ad incidere sullo stesso modo di sentire l'occasione funebre: un nuovo elemento trionfale, prima assente, fece il proprio ingresso nel cerimoniale. (KANTOROWICZ, 1989: p. 363)

 

4. I due corpi: dell'oggetto

Queste condizioni restano operative fino al Novecento che, direzionato da una nuova tecnologia produttiva foriera mai neutrale di condizioni percettive altre, configura l'archetipo nell'icona secondo una nuova fenomenologia dell'oggetto nella sua immediatezza quale nodo dell'esperienza artistica della pop-art.

Dichiarati i tre diversi risvolti che animano la teologia-politica nelle possibili declinazioni artistiche novecentesche

- mediazione = futurismo8

- razionalismo = neoplasticismo9

- immediatezza= pop art 10

proprio l'esperienza della pop art diventa la chiave di volta per interagire con oggetti diventati icone11 per via del loro carattere di immediatezza12.

Fig. 4

Gli artisti pop si sono infatti appropriati degli schemi e dei processi di scansione della comunicazione di massa per presentare le immagini cariche della nostra storia e sottolineare la violenza della nostra epoca. Se il medium non è il messaggio, ma è la forma in cui il messaggio è dato e viene assunto come dispositivo stilistico dagli artisti ormai consapevoli della struttura dei media, l'assunzione di un modello iconologico religioso risulta con certa evidenza nell'opera Campbell's Soup Cans quale sintesi della teologia-politica.

Le strutture create per presentare questi barattoli fanno quasi pensare a dei dipinti religiosi: cori, assemblee, iconostasi, in cui i barattoli diventano i contenitori della nostra zuppa quotidiana. C'era un piatto fumante di zuppa Campbell appoggiato contro la parete di fondo dello studio di Warhol quando per l'ultima volta egli chiuse la porta dietro di sé per recarsi all'ospedale dove subì l'operazione che l'avrebbe ucciso nel 1987. Il dipinto stava accanto a una doppia immagine di Gesù, appartenente alle diverse varianti dell''Ultima Cena a cui aveva lavorato negli ultimi anni della sua vita. Ciò che ammirava della cultura commerciale era l'uniformità e la prevedibilità del cibo industriale ordinario. Un barattolo di zuppa di pomodoro Campbell è uguale a tutti gli altri barattoli (Chiunque tu sia non potrai avere un barattolo di zuppa migliore degli altri barattoli. Wittgenstein disse che non gli importava cosa mangiava, purché fosse sempre la stessa cosa. Per Warhol la ripetizione di contenitori alimentari immediatamente riconoscibili - barattoli Campbell, bottiglie di Coca-Cola - era un vero e proprio simbolo di eguaglianza politica, non solo un semplice dispositivo formale d'avanguardia. (DANTO, 2010: p. 37)

Il percorso qui presentato non può di certo dirsi esaustivo: lo studio del culto delle immagini impone una riflessione che si adegui, anche metodologicamente, alla tecnologia dell'alta definizione. Eppure, risulta evidente come l'impiego per fini politici delle immagini descriva le nuove condizioni che ne segnano i rapporti di fruizione nell'alveare della teologia della merce, al tempo della religione capitalista13.

 

 

Didascalie delle immagini

Fig. 1, Augusto di Prima Porta, I secolo d.C., marmo, h. 204 cm., Musei Vaticani, Città del Vaticano.

Fig. 2, Moneta di Costantino (con la rappresentazione del monogramma di Cristo sopra il labaro imperiale), ca. 327 d.C.

Fig. 3, Tiziano, Ritratto di Francesco I, 1539, olio su tela, 109 x 89 cm., Louvre, Parigi

Fig. 4., Andy Warhol, Marilyn Monroe su fondo oro, 1962, serigrafia, 211 m x 145 cm.

 

Bibliografia

Giorgio Agamben, Creazione e anarchia. L'opera nell'età della religione capitalistica, Vicenza: Neri Pozza, 2017

Hans Belting, Il culto delle immagini: storia dell'icona dall'età imperiale al tardo Medioevo, Roma: Carocci, 2004

Arthur C. Danto, Andy Warhol, Torino: Einaudi, 2010

Renato De Fusco, Storia dell'arte contemporanea, Roma;Bari: GLF editori Laterza, 2010

Gillo Dorfles, Nuovi riti, nuovi miti, Milano: Skira, 2003

Ernst H. Kantorowicz, I due corpi del re: l'idea di regalit nella teologia politica medioevale, Torino: Einaudi, 1989

Ernst Kitzinger, Il culto delle immagini: l'arte bizantina dal cristianesimo delle origini all'Iconoclastia, Scandicci: La nuova Italia, 1992

Paul Zanker, Augusto e il potere delle immagini, Torino: Bollati Boringhieri, 2006

 

Note con rimando automatico al testo

1Come presentato da Giorgio Agamben, nel suo recente testo Creazione e anarchia. L'opera nell'età della religione capitalistica, al capitolo IV – Che cos'è un comando?

2Il celebre brano del trattato sullo spirito santo di san Basilio così frequentemente citato nei secoli successivi in difesa del culto delle immagini di Cristo, così come passi di altri autori di questo periodo nei quali si fa riferimento all'adorazione dell'immagine imperiale ai fini di illustrare varie questioni, attestano come tale forma di venerazione venisse di fatto ritenuta consueta e conveniente.

3Si davano casi in cui considerazioni teoretiche, ed in particolare teologiche e dottrinali, servivano non soltanto per difendere le immagini ed il loro culto, ma anche a promuoverle. La teologia, tuttavia, non può essere considerata se non come una causa accessoria fra quante hanno contribuito all'espansione del culto delle immagini. Kitzinger, p. 5

4Come presentato da Giorgio Agamben, nel suo recente testo Creazione e anarchia. L'opera nell'età della religione capitalistica, al capitolo I – Archeologia dell'opera d'arte

5 Proprio come negli uffici pubblici è possibile trovare l'immagine del presidente della repubblica, nelle sagrestie è d'obbligo trovare la foto del Papa, almeno.

6 Il principio centrale che struttura i due corpi è: dignitas non moritur. Il colpo di genio di Kantorowicz consiste individua una metafora ponendo l'accento metaforico non più sul predicato, ma sul tema: se la dignità non muore mai è perché essa viene equicomparata a un essere vivente, a una persona. Il predicato non moritur costituisce dunque un paradigma dei soggetti vivi e immortali in cui si mescolano le istituzioni (metafore morte), i soggetti celesti (predicazione teologica) e le persone mitologiche (allegorie) o fittizie (metafore vive): Impero, corpo mistico, angelo, Cristo, fisco, Re, Fenice. A cementare questo paradigma contribuiscono altre figure retoriche: una paronomasia (/i/-/s/-/us/), che unisce Cristo a fisco; una metafora secondaria (il re / il Re) che istituzionalizza la persona regale; una metonimia (l'oggetto parziale fiscus per la totalità, ossia lo stato o il regno); e una allegoria (la Fenice che rappresenta la perpetuità della dinastia, sempre identica e rinascente). Dall'introduzione di Alain Boreau, in KANTOROWICZ, 1989: p. 3.

7 L'antica idea di regalità liturgica venne gradualmente dissolvendosi per cedere il passo ad un nuovo modello di regalità centrato sulla sfera del diritto che non mancava di un proprio misticismo. La nuova aura cominciò a discendere sul nascente stato laico e nazionale guidato da un nuovo pater patriae, quando questo iniziò a rivendicare per il proprio apparato amministrativo e per le pubbliche istituzioni quel carattere eterno e perpetuo che sino ad allora era stato riconosciuto solo alla Chiesa e, dal diritto romano e dai civilisti, all'impero romano: imperium semper est. La dicotomia medioevale tra sacerdotium e regnum veniva chiaramente soppiantata dalla nuova dicotomia tra re e diritto. Nell'epoca della giurisprudenza lo Stato sovrano aveva raggiunto una santificazione della propria essenza indipendente alla Chiesa, sebbene parallela ad essa, ed assunto su di sé l'eternità dell'Impero romano diventando il re un imperatore nel proprio regno. Ma questa santificazione dello status regis et regni, delle istituzioni e dei servizi, delle necessità e delle emergenze statali, sarebbe rimasta incompleta se il nuovo Stato non fosse stato esso stesso equicomparato alla Chiesa anche per i suoi caratteri corporativi, come secolare corpus mysticum. (KANTOROWICZ, 1989: 164-5)

8 Gli aspetti della pittura e scultura futuriste più pertinenti alla linea dell'espressione sono strettamente legati alla cultura dell'Einfühlung, al punto da riproporne persino i termini. Anzitutto, messi di fronte al duplice indirizzo teorico dell'arte a cavallo del secolo, quello psicologico-espressivo e quello gnoseologico-costruttivo, i futuristi scelgono decisamente il primo. La loro è un'arte soggettiva - dichiarano -, rivolta cioè all'espressione di stati d'animo piuttosto che ai valori obiettivi della forma, come si ritiene generalmente fossero quelli dei cubisti. Operata questa scelta, essi indicano il loro peculiare carattere programmatico: il dinamismo, una velocità formatrice e deformatrice di oggetti, di percezioni e ricordi, un mondo di immagini, alle quali non si assiste ma si partecipa [...] è opportuno rilevare che i futuristi, accanto alla componente dell'Einfühlung di matrice organica, non trascurano quella dell'astrazione (De Fusco, 2010: p. 30)

9 De Stijl, quali che siano le premesse, spiritualistiche, simboliche, puro visibilistiche, risulta la tendenza che al di sopra di tutte le altre è riuscita ad organizzare la formalizzazione di un linguaggio pittorico il più vicino a quello della lingua. Infatti, coi pochi elementi sopra descritti e con poche regole combinatorie, il Neoplasticismo costruì un vero e proprio codice (nozione che equivale in gran parte a quella di stile) col quale riuscì a conforme potenzialmente infiniti messaggi, cioè opere non solo pittoriche e plastiche ma anche architettoniche, di arredamento di grafica, ecc. (De Fusco, 2010: p.146)

10 Quella della pop art è un''iconografia di immagini ed oggetti attraenti e brillanti, così come appaiono nella realtà, così come si vedono in un supermarket o come nei segni inconfondibili della scena urbana, dei mass media, della cosiddetta civiltà dei consumi. Ad un esame più approfondito, la suddetta iconografia non risulta più semplicemente prelevata, bensì manipolata ad arte ai fini dell'espressione. [...] Tale socialità, sul piano del contenuto, manifesta in tutta evidenza la cultura, antropologicamente intesa, del nostro tempo, la civiltà del benessere, del consumo, del tempo libero, quella cultura di massa cioè che nasce proprio in USA sia come realtà di fatto che come formulazione sociologica. Più significativo quanto la Pop Art propone sul piano della forma: dopo decenni di ermetiche immagini astratte, geometriche ed organiche, contemplative o espressionistiche, finte o informale, comunque decifrabili solo da chi ne conoscesse gli stilemi più o meno codificati, ecco di nuovo, e finalmente, la presentazione o rappresentazione di figure e cose della vita quotidiana, una sorta di risemantizzazione dal basso, basata sull'iconografia di una realtà tutta artificiale e tecnologica » ( De Fusco, 2010: p. 261)

11 La civiltà del consumo si mescola costantemente e interferisce di continuo con una civiltà dell'immagine, anche essa onnipresente e determinante per tutto il nostro modo d'essere nel mondo e di essere intersoggettivamente. Sono icone tutte le multiformi immagini che ci circondano, che ci impartiscono precetti, ammonimenti, lusinghe (le immagini dell segnaletica stradale, dei cartelloni cinematografici, dei manifesti politici, della pubblicità luminosa, non solo: ma le immagini del cinema, della Tv, dell'internet) costituiscono davvero per la nostra epoca un paradigma iconografico, ma anche le nuove divinità mitiche che di continuo ci vigilano e ci assistono, ci irretiscono e ci ipnotizzano. (Dorfles, 2003: p. 219-20)

12 All’inizio del novecento c’è la teologia politica della decisione – informale, astrattismo. Poi a metà del 900 abbiamo anche l’altra teologia politica, presente in Benjamin. La tesi di fondo: l’oggetto nella sua nudità è funzionalmente uguale all’attimo, a ciò che abbiamo visto essere ora l’attimo, cioè occasione. L’oggetto è occasione per l’accadere della totalità. Capisci la totalità non raffigurandola tutta, ma attraverso un oggetto nella propria metafisica solitudine. Dunque il ritratto di Mao. La pop art consiste in questo nel far vedere che l’arte consiste non nel grande racconto, nella forma, nella figura, nella tecnica ma nella manifestazione di un assoluto, cioè di una immediatezza. Non di un assoluto come qualcosa che cade dal cielo ma come una immediatezza che avviene. Quello che avviene è che il mondo è una immagine raccolta di merci: prendi un oggetto nato per esser merce e lo fai vedere come se fosse arte. Ed ecco che hai fatto la tua trasformazione dell’oggetto in attimo che ti fa capire tutto.

13 Come presentato da Giorgio Agamben, nel suo recente testo Creazione e anarchia. L'opera nell'età della religione capitalistica, al capitolo V – Il capitalismo come religione

 

 

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