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Fogli e Parole d'Arte

Rivista d'arte on line, ha ricevuto il codice ISSN (International Standard Serial Number)

1973-2635
il 23 ottobre 2007.

Fogli e Parole d'Arte è diretta da
Andrea Bonavoglia (Vitorchiano)
e distribuita on line dalla società Ergonet di Montefiascone (Vt).

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Testuali parole

Il Cavaliere, la Morte e gli scacchi

I pezzi Staunton

È possibile aggiungere qualcosa a tutto ciò che è stato detto e scritto sugli scacchi?

Sembra di no. Forse solo una scelta fra elementi noti, arcinoti o poco noti, può riuscire un minimo originale. 
Gli stessi pezzi del gioco hanno ricevuto tutte le declinazioni possibili immaginabili fino alle più curiose: dagli scacchi comunisti ai personaggi dei Simpson. Appena prima della metà dell’Ottocento è stata disegnata la forma oggi accettata per l’agonistica che ha preso il nome dal campione inglese, Staunton, che l’ha approvata e fatta conoscere.
La simbologia della scacchiera (la disposizione delle case bianche e nere ha preso il nome dagli scacchi) è stata utilizzata spesso (la Massoneria, ad esempio) e il dualismo dei due colori come yin e yang, maschile e femminile, luce e tenebre, il giorno e la notte, ecc., è ricorrente. Talvolta essa è stata assimilata a un mandala.
Gli appassionati e i cultori del gioco hanno stilato lunghe liste in rapporto ai più svariati generi: scacchi e letteratura (poesia, narrativa, teatro), cinema, arti figurative. Tutti gli aspetti sono stati indagati ed esauriti: dalla storia alle bizzarrie, primati, record (anche i più astrusi), amenità, aneddoti, aforismi. Neppure mancano indovinelli, rebus, barzellette.

Ecco degli esempi.
Non si contano le battute, più o meno equivalenti, che si fondano sugli equivoci linguistici: “mangiare” il cavallo, il pedone/passante, il matto/folle.
Un indovinello. “L’imparabile mossa fu giocata/ Quando ad oriente già spuntava il sole”. L’autore Staccia Buratta usa l’endecasillabo a maiore rinunciando alla rima baciata con - …già il sole spuntava - per il falso diminutivo. La soluzione è: matto /mattino.
Famosa è la barzelletta che prende di mira il campionato del mondo del 1972, tra Boris Spasskij e Bobby Fischer. Un pastore vive in Siberia in estrema solitudine. Ha con sé solo una radio che lo tiene in contatto col mondo. Finché non si guasta. Così resta senza notizie. Un giorno incontra un uomo che accoglie con entusiasmo e ospita e dal quale si aggiorna sui fatti accaduti nel frattempo. Poi gli chiede: “Quando s’è rotta la radio si stava svolgendo il campionato del mondo di scacchi ed era stata giocata la seconda partita. Com’è andato a finire?”. L’altro dopo un attimo di commozione risponde: “Ho perso io”. 
Considerato, forse non a torto, il match del secolo, la sfida travalicò il significato scacchistico per diventare un evento di costume e di politica internazionale. Gli scacchi nell’ex Unione Sovietica erano uno sport di Stato col prestigio di una scuola che dominava i tornei (anche con un gioco di squadra?).

Spassky contro Fischer nel 1972

Erano gli anni della Guerra fredda e la comparsa sulla scena internazionale di Fischer dava la possibilità agli Stati Uniti di contrapporsi allo strapotere russo. Fischer seppe creare un clima di attesa spasmodico. Il campione americano pretese più denaro, si faceva pregare da uomini politici di primo piano e minacciava costantemente di non recarsi in Islanda. Egli nevrotico e bizzoso trovò facile costruire la suspence senza che sia possibile stabilire quanto “fosse o ci facesse”.
Ripercorrere le vicende dell’incontro di Reykjavik sarebbe interessante da vari punti di vista ma non pertinente. Bizzarro ricordare che il rappresentante del mondo occidentale avesse genitori (la madre e il padre biologico) di origine ebraica e slavi, che la madre fosse un’attivista “seguita” dai servizi segreti e che lo stesso Fischer finisse per essere condannato dagli Stati Uniti per motivi politici e naturalizzato islandese. Una terra che lo ha reso famoso e che ora accoglie le sue spoglie.

Un’altra sfida di grande significato simbolico è stata quella del 1997 tra Kasparov, il campione del mondo del momento, e il calcolatore Deep Blue. Gli scacchi sembravano il terreno adatto per un confronto tra l’intelligenza umana e quella artificiale. Kasparov uscì sconfitto (e distrutto). La sfida ebbe un esito diverso rispetto a quella dell’anno prima. In realtà non credo si possa affermare un primato tra l’uomo e la macchina, se non che i programmi erano straordinariamente migliorati e si avviavano a giocare meglio dei campioni. I computer non fanno sviste, non hanno emozioni e dunque nemmeno crolli psicologici. Kasparov infatti giocò al di sotto delle sue capacità. Ci furono polemiche e si sospettò l’intervento di qualche esperto nelle decisioni del computer. Destò sorpresa la capacità di gioco strategico (posizionamento dei pezzi) quando si pensava che il programma avesse solo grandi capacità tattiche (l’arte delle combinazioni). Un motivo per il quale Kasparov snaturò in parte il proprio gioco per portare il computer sul terreno che riteneva per esso sfavorevole.

Asimov scrive: “Il computer è al nostro servizio e non ha desideri propri. Non sospira e non fa smorfie quando fate una mossa sbagliata. Né vi prende in giro quando perdete…non fa il prezioso, né mai si stanca…”. Oggi molti programmi commentano le mosse deboli con battute sferzanti (anche se l’umiliazione non è la stessa di subirle dal rivale in carne e ossa).

Il giocatore automatico ricostruito da Gavin Turk

Ben nota è la storia del “Turco”. Oggi conosciamo il segreto dell’automa. Non si trattava di una macchina capace di giocare. All’interno della cassa che sosteneva il manichino abbigliato all’orientale un uomo di piccola statura muoveva il braccio meccanico studiando la partita alla luce di una candela. La brillante “invenzione” del barone W. Von Kempelen (1769) fece il giro delle corti europee e ricevette l’onore d’incontrarsi e di scontrarsi con famosi personaggi, prima di andare distrutta in un incendio a Filadelfia nel 1854. Ai giorno nostri un artista contemporaneo di video – arte, Gavin Turk, l’ha riproposto.
Che Guevara (il “cavaliere” della rivoluzione) ha giocato e conosciuto campioni, che osserva in gara un anno prima della morte. Cuba gli dedica un francobollo che lo raffigura davanti alla scacchiera in segno di riconoscimento alla grande passione di un uomo-icona dell’eroe e il cui mito si fonda sul sacrificio della vita per un ideale.
William Jones, anche se la paternità dell’idea sembra spettare a un umanista italiano del Cinquecento, in un poemetto in versi crea (o reinventa) Caissa, la dea degli scacchi, la ninfa di una quercia che riceve gli scacchi in dono dal dio Marte che li ha inventati per lei che oppone un rifiuto al suo amore.
Se col gioco i bambini imparano le schermaglie, l’elaborazione di piani e strategie, le dure regole della vita, i vecchi provano a scordare che il tempo concesso sta per scadere. Il gioco allora è una “bellezza inutile” con cui si tenta anche per poco di dimenticare la bruttezza utile di tanta parte delle attività a cui si è costretti per guadagnare da vivere.
“L’uomo è veramente uomo quando gioca” afferma Schiller nelle Lettere sull’educazione estetica e più di recente Huizinga ha attribuito al gioco un ruolo di primo piano nella cultura con il classico Homo ludens.
I malanni, le afflizioni, le sventure solo di rado e per poco lasciano gli uomini e anche mentre essi cercano nel gioco una distrazione, a un tratto un pensiero improvviso, come una fitta dolorosa, li riporta alla mente. Ed è come un inconscio senso di colpa. Non per caso nel Trionfo della Morte
(come in quella di Bruegel) la strage, la pestilenza, la catastrofe colpiscono uomini intenti ai giochi più disparati.

Il cavaliere, la morte e il diavolo, di Albrecht DuererL'opera che abbiamo parafrasato per il titolo è una delle più belle e conosciute di Dürer. Essa ha suscitato letture che la contestualizzano e attualizzazioni che la interpretano come il simbolo di valori di una destra nostalgica che esprime lealtà fedeltà a tradizionali valori. Il protagonista è il cavaliere, una figura che l’epoca rinascimentale ridicolizza col Don Chisciotte ma che non può del tutto abbandonare.
L’opera è sempre collegata con altre due: la Melanconia I e San Girolamo nello studio. In tutte, è stato notato, compare uno stesso oggetto: la clessidra. Lo strumento misura il tempo ed è il simbolo della sua fuggevolezza. Un memento mori anche se meno esplicito del teschio che comunque è presente e compare in due delle tre incisioni. Oggi negli scacchi non è pensabile giocare senza l’orologio. Molte partite sono decise dal tempo a disposizione. Il grande giocatore è colui che analizza più possibilità con maggiore velocità. Ecco che il tempo incombe minacciosamente.
Nel teatro è molto popolare il finale in versi di Una partita a scacchi di Giacosa col dialogo tra il paggio Fernando e Jolanda: “e ancor, paggio Fernando, mi affisi e non favelli? Io ti guardo negli occhi che son tanto belli”: è il “perché mi guardi e non favelli” di una partita a scacchi nella quale la posta è la vita del giovane (contro il matrimonio con la damigella). Girolamo Induno (1825-1890) ne dipinge due versioni nel clima di revival medievaleggiante del tempo.
Nomi simili, Ferdinando e Miranda, hanno i protagonisti di un’altra partita ricca di significato nella Tempesta di Shakespeare.
Corradino di Svevia e Federico del Baden insieme prigionieri (prima nella Torre Astura poi a Napoli in Castel dell’Ovo) giocano aspettando l’esecuzione capitale. Triste e malinconica fraternità e amicizia accomunati dal destino avverso. È Pauline Suhrlandt Soltau che dipinge la pietosa scena nel 1860.
Ivan il terribileBellissima è l’immagine di Ivan il terribile, nel film di Eisenstein, che gioca a scacchi con l’ombra portata del busto che giganteggia sulla parete. Si racconta che il despota sia morto (avvelenato?) mentre giocava a scacchi.
La seconda parte della Terra desolata di Eliot s’intitola “Una partita a scacchi”. Difficile interpretare tale partita, ma la sensazione è quella di un’incomunicabilità sulla quale incombe lo “scadere” del tempo.
Un poeta persiano, Omar Khayan dice: “Noi siamo i pedoni della misteriosa partita a scacchi giocata da Dio. Egli ci sposta, ci ferma, ci respinge, poi ci getta uno a uno nella scatola del Nulla”. Richard Müller nel 1942 disegna la mano di uno scheletro che ripone i pezzi.
Il settimo sigilloL’immagine che tutti rammentiamo è quella del cavaliere che gioca con la morte sulla riva del mare nel Settimo Sigillo di Bergman. Ancora il cavaliere, il rappresentante di un Medioevo di cortesia e liberalità, una figura nel medesimo tempo anacronistica e impossibile da cancellare, sotterraneamente sempre viva. È curioso notare come il regista non si sia curato (o di proposito abbia sbagliato) dell’orientamento corretto della scacchiera nel momento del matto finale, quando l’inquadratura si sofferma sulla posizione scacchistica.
Da sempre gli scacchi sono interpretati come il gioco della guerra (nella similitudine di Guerra e pace di Tolstoj è la guerra ad essere paragonata agli scacchi). Gli schieramenti, i cavalieri, le fortificazioni possono essere visti come la sublimazione di uno spirito guerriero, e forse anche per questo affascinano soprattutto gli uomini mentre le donne ne sono meno attratte. In realtà l’attrattiva principale è la gioia dell’intuizione, dell’idea che appare alla mente, l’ammirazione per la decisione brillante e inaspettata. È una lotta con se stessi, per misurare le proprie capacità e i propri limiti, per conoscersi di fronte alla scelta.
Tutti sanno che l’origine del nome è “il re è morto”. Già dall’etimologia sembra che la morte sovrasti il gioco. Psicanalisti (o pseudo psicanalisti?) hanno scomodato Edipo e l’uccisione del padre.
Secondo l’aneddoto celeberrimo, sempre ricordato, anche da Dante, l’inventore chiese un chicco di grano (o riso) sulla prima casella e il doppio sulle altre, fino a raggiungere, inaspettatamente per il sultano che aveva offerto la ricompensa, una quantità enorme. Di rado si completa la storia coll’uccisione dell’inventore degli scacchi (decisa dal sovrano che non poteva soddisfare la richiesta e rispettare la parola data). Ancora un legame con la morte.
Nel quadro di Henryk Siemiradzki, mentre una donna sta coprendo una bara posta di traverso in primo piano, un uomo corpulento legge una lettera, forse il testamento, avvicinando agli occhi la carta come farebbe un miope e un altro ha di fronte una scacchiera con pedine. Pare che ognuno di loro sia l’esempio di un atteggiamento di fronte alla morte: la cura delle spoglie e la pietà (o l’esecuzione di convenzioni esteriori), l’interesse cinico, l’indifferenza. È curioso che il gioco della dama non sia messo in rapporto con la morte e quando ciò raramente accade come in questo caso, assuma un significato diverso e particolare, come se alla dama si associasse leggerezza e superficialità.

In alcune opere pittoriche il tema della morte compare direttamente.
Loyset Liédet Morte di due giocatori di scacchi (1462).
Johannes Samuel Blattner dipinge “Giovanni Federico di Sassonia apprende la sentenza che lo condanna a morte (poi non eseguita) mentre gioca a scacchi”.
R.F. Descarin (1746-1793) “Ritratto del dottor C. che gioca con la morte”.
Natura morta con insetto di J. Rudolf Feyerabend (1779-1814). È il consueto tema della Vanitas.

Riccardo Tommaso Ferroni con Partita a scacchi col mistero ripropone Caravaggio e il Seicento con un teschio su un tavolo vicino a quello di gioco mentre l’arrivo di qualcuno è annunciato da un’inquietante ombra portata.
Karl Truppe è l’autore di Partita a scacchi con la morte
del 1942.

Loyset Liédet Morte di due giocatori di scacchi  Riccardo Tommaso Ferroni, Partita a scacchi col mistero

Il dubbio peggiore: lo sforzo mentale può causare, in particolari condizioni critiche, la morte? È ciò che si sospetta per il campione Zukertort. Ed è solo una spiacevole coincidenza che nel corso delle Olimpiadi del 2014 in Norvegia siano morti (d’infarto) due giocatori?
Il gioco è l’unica attività umana nella quale le regole non possono essere trasgredite (pena la fine del gioco) e ciò vale ancor più per gli scacchi, considerati il gioco dei giochi.
Gioco è una parola che viene anche usata come contrario di cosa seria; per questo Stefan Zweig si chiede: “Non è offensivo chiamare gli scacchi un gioco?”.

 

 

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